DA: “QUADRETTI DI UN TEMPO”

 

Venti giorni a Villerbosa
di Rita Sanna

 

Accadde una sola volta, ma rivivo ancora l’ebbrezza che provai, quando ai piedi de “Sa Spendula”, una ripida e esuberante cascata, mi feci investire dai suoi sbruffi. Gelidi. Di ghiaccio. Era l’unico luogo dove scappare per pochi minuti di refrigerio dal caldo umido e soffocante che caratterizzava Villerbosa, un grosso paese incassato tra le montagne.
Là vivevano i fratelli del nonno e ogni anno, ad agosto, mia madre mi spediva da loro.
M’imbarcava sul pullman di linea della Satas e all’arrivo trovavo sempre qualcuno degli zii ad attendermi.
Questi non erano per niente affettuosi ma gentili e premurosi. Faceva eccezione lo zio Pasquale, irascibile e autoritario soprattutto nei confronti delle sorelle,costrette a subire passivamente i suoi sbalzi d’umore per essere l’unico uomo di casa.
Gli altri tre maschi della famiglia erano tutti morti e di loro rimanevano le grandi fotografie in bianco e nero che riempivano tutte le pareti del salone.
Mi facevano un’impressione terrificante quegli occhi sempre fissi su di me
ogni qualvolta sollevavo lo sguardo oltre la mia altezza.
Così mi rifugiavo in cucina, il “regno” della zia Mena, la più anziana, che era solita cominciare a cucinare dalla mattina presto.
L’odore di soffritto, superato il salone, saliva prepotente per le scale sino alla stanza da letto, al piano di sopra,dove ogni mattina,spalmata completamente nel grande letto matrimoniale, recuperavo il sonno perso durante la notte per il continuo o intermittente russare delle zie.
Le mie notti trascorrevano senza potermi neanche muovere, incastrata com’ero tra la zia Mena e la zia Nide che, ahimé, erano più grasse che alte.
Di solito si coricavano all’ora in cui vanno a dormire le galline e si alzavano al primo canto del gallo: zia Nide per aprire la tabaccheria di proprietà dello zio Pasquale, zia Mena per sbrigare tutte le faccende domestiche.
Finalmente sola, sprofondavo nel saporito sonno del mattino, ma quasi subito lo scricchiolio della porta accanto mi faceva sobbalzare.
Era la zia Santina che, completamente sorda sin dalla nascita e quasi cieca, cercava di guadagnare l’uscita andando tastoni.
Un percorso ripetuto da più di cinquant'anni per scendere al piano terreno!
Prima rasentava le sponde del grande letto e poi, con una mano, si teneva alla parete sino a raggiungere lentamente la ringhiera della ripida scala di legno.
Con i bhum…bhum…bhum dei suoi pesanti passi, il mio sonno era definitivamente terminato.
“Chissà” mi chiedevo “perché fanno mettere ai piedi di quella poveretta quegli scarponcini allacciati sino alla caviglia!”
Ero certa che fosse una vera tortura calzarli anche in piena estate, ma ero troppo ragazzina per capire che quel tipo di scarpe le assicurava un’andatura più stabile.
Diversamente dalle altre, la zia Santina era stata sempre di corporatura esile e minuta.
La ricordo piccola piccola e completamente rinsecchita. I grandi occhiali, appesantiti dalle lenti spesse come vetro di bottiglia, le mangiavano completamente il viso smunto.
Per niente considerata dallo zio Pasquale, che stimava solo le persone di carattere e attive, trascorreva la sua esistenza isolata da tutti i componenti della famiglia e dal resto del mondo.
Chissà da quanti anni non aveva più messo fuori il naso oltre la porta di casa!
Comunque si rendeva utile separando la frutta sana da quella che cominciava a marcire nei grandi canestri che ricoprivano un lungo tavolo della sua cameretta dove io, ogni mattina, quando lei non c’era, in punta di piedi per non fare scricchiolare il ruvido pavimento di legno,entravo di nascosto attirata dall’antico profumo di melacotogne, di pere, di mele, di meloni e di uva bianca un po’appassita, che pendeva dalle canne appese alle travi del soffitto.
Spesso, dopo aver fatto una grande scorpacciata di quel ben di Dio, nascondevo i torsoli in un pezzo di carta e li portavo giù nel cortile, dove un maiale tanto grasso da non potersi più sollevare da terra, sembrava accettare con grugniti di piacere i resti del mio piccolo furto.
La zia Santina, solitamente seduta in un angolo della cucina, che si affacciava al cortile, si accorgeva subito del mio passaggio. Mi riconosceva dalla sagoma e battendo ripetutamente una mano sul basso scanno che stava al suo fianco, m’invitava a sedermi vicino a lei. “Siediti qui, Lisetta!”mi diceva con un suono di voce strozzata, propria di chi è rimasta in silenzio per lungo tempo.
Io ubbidivo al suo invito e lei, contenta, con le dita ruvide e secche percorreva delicatamente il mio viso sino alla fronte.
Abbozzava un sorriso senza denti e in silenzio continuava a sbucciare le fave fresche e i piselli. Separava i più teneri e me li offriva senza sapere che, verde com’ero di carnagione, fosse meglio non mangiarli. Così con molta disinvoltura, attraverso la porta aperta, io li lanciavo al maiale con la silenziosa disapprovazione della zia Mena, che aspettava impaziente di farne delle enormi e gustose frittate con le uova.
“Ricordati di bere un uovo crudo al giorno. E’ un buon ricostituente!”
Mi aveva raccomandato mia madre prima della partenza.
Le zie, invece, per colazione mi preparavano sempre una tazza di latte con due dita di panna spessa e grassa, ed io, che non la tollerava, finivo per correre in bagno più volte al giorno.
Non era proprio un bagno, era un gabinetto, con una piccola porticina di legno a metà altezza e con un water di cemento collocato di fianco al grande forno dove le zie cuocevano ogni quindici giorni un gran quantità di pane, che finiva per diventare più duro del marmo.
Sui ripiani laterali del forno a cupola, alcune galline, in silenziosa seduta, deponevano uova di grandezza mai vista, altre preferivano sfidare la famelica bocca del gigantesco maiale che giaceva a terra. Inerte.
Le osservavo, inorridita, mentre gli punzecchiavano l’interno delle orecchie, le corte ciglia e gli divoravano con beccate voraci il lardo vivo delle cosce.
Una mattina decisi di prendere un ago. Scavalcai la grossa testa del maiale e mirinchiusi in gabinetto. Avvolta da un insieme d’odori di certo non inebrianti, attesi sino a che una gallina, accovacciata in un angolo, non sbrigasse il suo “parto” quotidiano.
Non tardò ad alzarsi e a saltar via con un dolente pigolio, abbandonando due grosse uova.
“Due?” commentai tra me, sorpresa dell’evento!
“Bene! Le zie non si accorgeranno di niente!”
Ne presi uno, infilzai la punta dell’ago nella parte più allungata e dal piccolo foro ne succhiai il contenuto, come si usava fare a casa mia.
Ahimé! Quel liquido viscido e caldo mi provocò un’immediata reazione di vomito.
Fu l’ultimo uovo della mia vita!
In quella casa di soli anziani, così allora mi sembravano perché il più grande non aveva più di cinquantacinque anni, mi annoiavo da morire.
Dovevo, inoltre, dividere equamente le mie attenzioni tra gli zii, che senza figli per non essersi mai sposati, ad eccezione della zia Mena che si era sposata tardi ed era rimasta vedova molto presto, erano gelosi del mio affetto, anche se per loro non esisteva l’usanza delle coccole.
Per lo zio Pasquale non esistevano le smancerie che, secondo lui, si addicevano alle persone “molli”, deboli, senza grinta. Alle femminucce!
Così lui s’imponeva con malagrazia sempre e comunque, anche nelle ore dei pasti. Sedeva sempre a capotavola su una sedia collocata sopra un’alta pedana di legno.
Solo in quel modo poteva guadagnare venti centimetri d’altezza e far valere “dall’alto” tutta la sua autorità.
Guai se alle dodici e trenta in punto il pranzo non era pronto per essere servito e se tutti non erano già seduti ai propri posti! Guai se si parlava con la bocca ancora piena e se il boccone era abbondante!
Detestava le bocche grandi, come la mia, ma non m’imponeva di usare il cucchiaino al posto del cucchiaio come faceva lui per non sformarsi la bocca a cuoricino.
“Lisetta, i gomiti … dal tavolo!” mi diceva con tono non burbero ma deciso.
Il pranzo era un autentico cerimoniale. Doveva iniziare a mangiare lui, il capofamiglia, non prima del rituale segno della croce e della preghiera di ringraziamento al Padreterno a cui facevano eco le sorelle. Spesso, però, finiva per scomodare tutti i santi del Paradiso e per imprecare contro la Madonna se i maccheroni erano scotti!
Io, che non era abituata a quella formalità, abbassavo subito la testa non per devozione, ma perché mi veniva una voglia matta di ridere.
Il cibo doveva essere sempre abbondante e sostanzioso: la pasta con il sugo e con la carne di gallina, la salsiccia,le uova fritte nello strutto,le frittate, le ciambelle e il pane con i ciccioli.
Non doveva mai mancare il vino di sua produzione nella panciuta brocca di terracotta che ne nascondeva il colore e la densità!
Era lui che versava da bere facendosi porgere il bicchiere dalle sorelle.
Dovevo bere anche io!
“Almeno mezzo bicchiere!” diceva, imponendosi.
Era convinto che il mio viso dal colorito olivastro diventasse rubicondo come il suo.
Io bevevo volentieri quel vino denso come succo di more e dolce più del nettare. Così, dopo l’abbondante pranzo, finivo per addormentarmi sul divano che puzzava d’odore di gatto tra la zia Mena e la zia Nide, sotto lo sguardo fisso degli zii, morti.
Lo zio Pasquale rimaneva al suo posto. Poggiava la testa sul tavolo e si appagava di un breve sonnellino russando indisturbato.
La zia Santina, poveretta, dopo aver sparecchiato, finiva in cucina a lavare i piatti!
Alle quattro in punto del pomeriggio dovevo sempre accompagnare la zia Nide per aprire la tabaccheria.
Solo cento metri dall’abitazione!
Là rimanevo in piedi sino all’ora della chiusura accanto alla zia che sprofondava subito sull’unica e larga sedia.
Il mio compito era quello di contare le sigarette, che allora si vendevano anche sciolte, mentre la zia incassava i soldi.
“Cinque alfe!”chiedeva uno, “Otto nazionalli senza filtro!” chiedeva l’altro, “Quattro mentollo” l’altro ancora. Così, senza assimilare le “doppie”, infilavo le sigarette nelle bustine di carta bianca e le porgevo, tutta compunta, ai clienti.
Venti giorni a contare le sigarette! Venti giorni senza camminare! Venti giorni a mangiare più del maiale!
Per forza, ogni estate, senza coccole e senza divertimento, tornavo a casa con tre chili in più, rendendo felice mia madre, ma soprattutto orgoglioso lo zio Pasquale che apprezzava solo le donne polpose.
Con queste, si sapeva, ne aveva combinato più di Bertoldo in Francia!


sanna.rita@libero.it

 

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