Ibn Battouta
di Laura Vargiu

Una pioggia malinconica e intermittente era caduta durante le prime ore della mattina e la sabbia era ancora bagnata. Il sole, che pur schiariva il cielo in quel pomeriggio di fine dicembre, non era sufficiente ad asciugarla, ma restituiva al mare il suo azzurro più bello.
Del resto il piccolo Mohammed era lì, come ogni giorno, per il mare. Non gli importava della sabbia su cui sedeva; sarebbe bastata poi una scrollata per toglierla dai vestiti.
A Tangeri quell’inverno si presentava particolarmente piovoso. Rinunciare alla spiaggia, uno dei punti migliori di osservazione, era per lui impensabile. Al porto non poteva andare; suo padre glielo aveva proibito: cattive frequentazioni e brutti giri che rovinavano i giovani, si sentiva dire di continuo. Qualche volta, disobbedendo, c’era stato per poter vedere da vicino le grandi navi e i traghetti che ogni giorno arrivavano e partivano dalla città con il loro carico di turisti e merci, solcando quello stesso mare che divide e unisce da sempre le sponde di due mondi vicini e lontani.
“Ma è ancora il Mediterraneo – si chiedeva senza sapersi dare risposta – o è già l’Atlantico?”
Mare o oceano che fosse, si trattava di una distesa d’acqua, la sola che avesse visto nel corso dei suoi undici anni, che lo chiamava a sé affascinandolo maleficamente con la chimera antica del viaggio.
Che ne sapeva lui di viaggi? L’unico l’aveva fatto anni addietro, insieme a suo zio Khaled, il libraio, che l’aveva portato con sé fino a Marrakech; non ricordava molto, se non il sapore dell’euforia prima della partenza e le ore interminabili trascorse sul treno. La prossima volta sarebbe stato tutto diverso. Non sapeva quando, ma avrebbe preso la nave, una come quella che guardava ora passare in lontananza: era bianca, lenta e si portava via la sua curiosità e i suoi sogni di bambino.
Aveva preso l’abitudine di scendere fino alla spiaggia ogni pomeriggio, quando era libero dai suoi doveri in famiglia. Seduto sulla sabbia, gli piaceva osservare il via vai quotidiano delle navi, fantasticando su altri luoghi e popoli del mondo. Un mondo che, per il momento, doveva accontentarsi di vedere attraverso le pagine dei libri e le immagini trasmesse dalla tv satellitare, le cui antenne, disseminate a migliaia, erano ormai una costante del panorama urbano.
Mentre il sole iniziava di nuovo a nascondersi dietro nuvole che promettevano altra pioggia, la nave era già divenuta una pallida chiazza all’orizzonte; il mare ripiombò di colpo nella grigia tristezza tipica di quel periodo dell’anno. Dai ristoranti sul lungomare proveniva intanto un inconfondibile odore di pesce fritto che si disperdeva lungo la spiaggia quasi deserta. Poco lontano passeggiavano un uomo e una donna, probabilmente stranieri; un ragazzino si avvicinò e chiese loro denaro per comprar da mangiare. I due volti della città, pensò Mohammed: grandi alberghi per una clientela internazionale, proprio come quello con le bandiere sventolanti dall’altra parte della strada, e tristi mendicanti con la mano tesa.
Ormai era tempo di tornare indietro: la sua medina1 lo aspettava, lassù, placida e arroccata in tutto il suo fascino. E allora, ancora una volta, di corsa per le vie familiari della città che l’aveva visto nascere e che ora lo vedeva crescere con il desiderio d’andar via. Eppure si sentiva profondamente legato a Tangeri, tanto bella con quel suo aspetto bianco incorniciato dal verde delle palme e dalle sfumature del mare.
Ne conosceva ogni strada, ogni scorciatoia, ogni angolo nascosto, i dettagli più bizzarri che passavano inosservati a chi non fosse del posto e a chi, del posto, non sapesse osservare. Mentre si affrettava, lo accarezzavano colori, suoni e profumi noti da sempre. Sulle vetrine dei locali, tra i boulevard dei nuovi quartieri, campeggiavano le scritte ammiccanti Bonne Année e Feliz año nuevo. Al vecchio Café de Paris s’intravedeva il solito affollamento quotidiano, seduto oziosamente a sorseggiare caffè e tè alla menta. Da un lato i campanili delle chiese, dall’altro i minareti delle moschee. Neppure la vecchia sinagoga era lontana. Amava Tangeri, così ricca di storia e di storie, e la sua sincera atmosfera multiculturale.
La medina, nella quale s’infilò velocemente, era per lui la parte più bella: forse perché, in quanto città vecchia, aveva tanto da raccontare a chi fosse stato capace di ascoltare; o forse, semplicemente, perché ci era nato e continuava a viverci. La sua famiglia, immersa in una statica quotidianità, ci abitava dacché se ne conservasse memoria e da generazioni la bottega paterna di frutta e verdura dava da sopravvivere; Mohammed ci lavorava con il padre durante la mattina, mentre dal pomeriggio aiutava lo zio in libreria.
Quest’ultima, posta nel cuore di quel dedalo di viuzze strette, fra salite e discese, non era che un buco di negozio; tuttavia, con gli scaffali ricolmi di libri, in molti punti ammassati disordinatamente per questioni di spazio, era come una grande scatola dei sogni in cui ci si poteva smarrire con facilità, esattamente come nell’intrico di vie della medina dai delicati colori pastello. Là dentro, più che durante la breve parentesi della scuola, aveva imparato a leggere e a sognare grazie a quei libri che gli parlavano di Paesi e genti lontane, oceani e montagne, vulcani e ghiacciai, deserti e grattacieli. Era nata su quelle pagine, tra la polvere e il buon odore di carta, la sua voglia di viaggiare per scoprire il mondo che un giorno – sperava – gli si sarebbe finalmente svelato così come si era svelato a colui di cui diceva, con orgoglio, di portare il nome.
“Mi chiamo Mohammed: come il Profeta e Ibn Battouta!”: si presentava così da quando aveva iniziato a leggere, tra i vari libri, Il viaggio di Ibn Battouta. In effetti Mohammed, cosa ignota a molti, era il primo dei tanti nomi di chi per tutti era semplicemente Ibn Battouta2.
Con l’illustre viaggiatore marocchino di tanti secoli prima, il ragazzino condivideva anche l’origine tangerina. Lo emozionava pensare al fatto che egli fosse venuto al mondo in quella stessa città e lì fosse vissuto fino al momento in cui era partito per uno dei viaggi più lunghi e avventurosi mai compiuti nella storia, tra Africa e Asia sfiorando l’Europa. La sera si portava a casa una copia del suo libro che, il giorno dopo, riportava alla libreria; naturalmente stava ben attento a non stropicciarne le pagine, altrimenti nessuno l’avrebbe poi comprata.
Custodita all’interno della medina, la modesta tomba di Ibn Battouta, termine ultimo del peregrinare del leggendario personaggio, era un punto di passaggio quasi obbligato per gli abitanti della città vecchia e al bambino capitava talvolta di accompagnarvi qualche straniero che in cambio gli lasciava una piccola mancia.
Intanto lo zio tardava ad aprire il negozio. C’era ancora il tempo per una corsa su fino alla kasba, un tempo residenza di sultani e governatori, posta nel punto più alto in cima a un dirupo da cui lanciare di nuovo lo sguardo sul mare: un’altra nave passava, seguendo silenziosa la rotta millenaria verso la Spagna e Gibilterra.
Ridiscendendo, Mohammed si soffermò un attimo davanti alla targa lignea sulla facciata bianca di Sidi Hosni, il palazzo appartenuto un tempo a una ricca signora americana che, come ancora bisbigliavano antiche voci, si era innamorata di Tangeri.
Con gli occhi e con il cuore rilesse le parole che già conosceva: hunak jannatun fawqa-l-ard. Hadhihi-l-janna huna huna huna.
C’è un paradiso sopra la terra. Questo paradiso è qui è qui è qui.
Una vaga sensazione d’incertezza, istantanea come un batter di ciglia, lo sfiorò mentre già s’allontanava: chissà se, un giorno, sarebbe veramente valsa la pena di partire…

Note

1 In arabo, letteralmente, “città”. Nel Maghreb il termine indica in modo specifico la parte antica di un centro urbano, in genere circondata da mura.
2 Viaggiatore del XIV secolo, uno dei personaggi più illustri del Marocco e del mondo arabo-islamico in generale. Il suo viaggio tra Africa e Oriente, durato circa un trentennio e tra i più straordinari che siano mai stati compiuti nella storia, è narrato in un famoso libro noto con il titolo di “Rihla Ibn Battouta” (“Il viaggio di Ibn Battouta”).


Al racconto è stato assegnato il Premio della Giuria per la sezione narrativa alla IIIa edizione del Premio Internazionale Fortunato Pasqualino di Butera, in provincia di Caltanisetta (maggio 2011).

 

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