|   Troppo 
            lontana la sera Il borgo di Taichì 
            era un paese di poche anime perso tra la pianura del nord e il mare. 
            Di quale nord non saprei dire. Di quale mare tanto meno. Talmente 
            perso, che nessuno l'avrebbe trovato, e forse neanche cercato. Non 
            c'era nessun solstizio, né un equinozio e il vecchio fondatore 
            del paese, un commerciante indocinese che ne fece una base per i suoi 
            traffici più o meno loschi era scomparso da tempo. Nell'inventario 
            urbano non mancavano una piazza, piccoli appezzamenti per la sussistenza 
            degli indigeni e casette basse basse, in file talmente ordinate da 
            creare uno squallido disordine. Nell'abitazione all'uscita del paese 
            viveva Herman Calvìs. L'unico abitante a transumare verso la 
            costa a intervalli più o meno irregolari. Negli anni adolescenziali, 
            lavorò per qualche anno come raccoglitore stagionale di carciofi. 
            Poi, si mise in proprio. In un mondo di furbi si sentiva quasi in 
            colpa a essere onesto.Herman Calvìs viveva con una misera pensione di invalidità 
            muovendosi con un vecchio motorino per le vie del borgo, sfuggente 
            agli sguardi degli altri. Le poche volte che si recava a taichì 
            era per ritirare nell'ufficio postale la sua pensione. Da piccolo 
            era sempre stato dietro le gonne della madre, Lavinia, donna minuta 
            e tetra, dedita al cucito e al ricamo. D'inverno,seguiva il padre, 
            muratore frontaliero, e durante l'estate si dedicava all'orto domestico, 
            mezzo di sussistenza fondamentale nella povera economia della famiglia. 
            Una brutta polmonite portò prima via la madre in un'orrida 
            notte di febbraio. Quasi un anno dopo perse anche il padre in un incidente 
            sul lavoro.
 Si ritrovò solo. Decise di coltivare l'orto e vendere ai turisti 
            costieri i prodotti della terra per arrotondare la sua misera pensione 
            e sopravvivere al lungo inverno di Taichì.
 La località costiera in cui si recava stagionalmente per vendere 
            gli ortaggi era a circa dieci chilometri dal suo borgo natio. C'era 
            allora nella località balneare di Indoormar uno strano turismo 
            pioneristico e insolito che si divideva tra la spiaggia dei nudisti 
            cinesi nella Cala serrada, luogo misterioso e demonizzato dagli abitanti 
            di indoormar che segretamente sognavano di andarci, lambendo e spiando 
            i naturisti dalle loro barche da pesca, e la spiaggia normal dove 
            si recavano le famigliole locali a fare il bagno munite di scafandro.
 Le seconde case degli abitanti di indoormar erano occupate dai turisti 
            cinesi, che una volta arrivati in paese e prenotate le case, noleggiavano 
            ogni mattino i gozzi ormeggiati nel porticciolo per raggiungere Cala 
            Serrada facendo rientro la sera nelle abitazioni. Spesso, portavano 
            con sé delle piccole cassapanche intagliate. Questo, nei primi 
            tempi, aveva destato un certo sospetto da parte degli abitanti di 
            indoormar, ma poi ogni dubbio era svanito attribuendo una stranezza 
            genetica a dei cinesi, perlopiù naturisti.
 Herman li aspettava sulla banchina del porto al loro rientro serale, 
            per vendere loro i prodotti del suo orto. Con un metodo artigianale 
            aveva agganciato al suo motorino un carretto in legno e percorreva 
            le stradine di campagna per evitare salatissime multe. Gli abitanti 
            di indoormar gli ridevano dietro, soprattutto quelli che ciondolavano 
            tutto il giorno difronte al Bar Del porto, l'unico ritrovo notturno 
            e diurno della località. Forse, vedevano in lui un elemento 
            debole, e scaricavano la propria miseria e nullità su quel 
            giovane uomo. Herman inghiottiva lacrime di sale e posizionava il 
            suo carretto sulla banchina in maniera ordinata e pulita. Accanto 
            a lui un altro strano ambulante vendeva libri usati. Era un uomo sulla 
            quarantina, conosciuto nel luogo col nomignolo di Barbuziente, alto, 
            robusto e barbuto, che parlava poco e malvolentieri, forse per nascondere 
            la sua balbuzie. Si diceva avesse girato tutto il mondo. Era solito 
            regalare a Herman dei libri d'avventura e questi ricambiava regalandogli 
            gli ortaggi che coltivava. Herman Calvìs divorava quei libri 
            negli inverni lunghi e solitari.
 Poi,d'incanto, le sere d'estate arrivavano i cinesi: alcuni passavano 
            indifferenti difronte agli ambulanti, altri con fare gentile acquistavano 
            libri e ortaggi. C'erano in particolare due donne, entrambe more e 
            minute, che spesso si trattenevano a parlare con Herman in un simpatico 
            italiano.
 Una sera torrida d'inizio agosto, al rientro dalla spiaggia una delle 
            due donne asiatiche gli chiese se l'indomani, al mattino, sarebbe 
            voluto andare a Cala Serrada con loro. Herman manifestò evidenti 
            segni di indecisione. Si lasciarono con l'accordo che se si fosse 
            deciso ad andare, l'avrebbero aspettato sino alle sette e un quarto 
            sulla banchina del porto.
 Quella fu una notte tormentata. Herman tardò a prendere sonno. 
            Pensava a cosa fare l'indomani. Spesso, prima di addormentarsi, scriveva 
            brevi versi su un taccuino trovato nella soffitta di casa. Quella 
            sera era immobilizzato dai pensieri e la testa gli scoppiava.
 Si alzò. Uscì nel portico dove su una sedia vide posato 
            uno degli ultimi libri che gli aveva regalato Barbuziente. L'autore 
            era un tale di nome Loris Griot. Il romanzo iniziava con queste parole:
 Liquami infangano l'orto delle certezze. La mia giornata è 
            un calvario di caffè amari, un pertugio di coscienza plasmato 
            dall'inconsistenza del giorno.
 Il mio è un destino monastico, dopo il dolore c'è uno 
            strano vuoto; parliamo ma regna il silenzio.
 Solo l'orizzonte può redimere la sera.
 Herman non capiva a fondo il senso di tali parole. Si sforzava. La 
            testa gli scoppiava. Decise di fare un passeggiata. Il sentiero era 
            appena rischiarato, costellato di rumori e ombre che apparivano felici 
            al suo passaggio. Arrivò sino alla cascata sul Rio Gentil. 
            Si fermò. Ascoltò il suono dell'acqua. Una serie di 
            pensieri gli attraversavano la mente. Doveva rientrare. Se avesse 
            portato con sé una maledetta penna sarebbe potuto rimanere. 
            Passo dopo passo rientrò a casa. Prese uno dei soliti fogli 
            di carta riciclata ma non riuscì a buttare giù una riga. 
            Si distese sul divano. Una vampata di sonno lo fece addormentare. 
            Piombò in un sonno onirico.
 Si sveglio col cuore in petto, peggio di averlo in gola. Erano le 
            sei in punto. Decise di prepararsi in fretta e uscire. L'acqua nel 
            catino era stagnante, ma non c'era tempo per andare alla fontana a 
            prenderne della fresca. Si risciacquò in poche battute. Il 
            torpore rimase. Chiuse l'uscio di casa e si incamminò verso 
            il motorino. Stacco il carretto per portare gli ortaggi e cercò 
            di mettere in moto il fidato mezzo. Quasi dieci anni di onorata carriera 
            al suo servizio. Per la prima volta fece le bizze. Non partì 
            al primo colpo. Tossiva ma non ruggiva. Era mancata la miscela. Herman 
            Calvìs corse a perdifiato verso la casa di Jack Lamer, un emigrato 
            francese possessore di trattore. L'unico che avrebbe potuto aiutarlo.
 Casa Lamer a quell'ora ancora dormiva. Solo Jack, solo sotto il portico 
            della casa, fumava una sigaretta appena arrotolata carico di insonnia 
            e dolori.
 “Buoongioorno” disse il vecchio Lamer a Herman, esasperando 
            le vocali.
 “ Jack, scusa l'ora ma mi devi aiutare, mi serve un po' di miscela 
            per il vecchio motorino. Proprio stamattina ha deciso di lasciarmi 
            a piedi”.
 “ Andiamo nel capanno Herman: ho un po' di benzina e olio lubrificante”.
 Si avviarono verso il capanno. Herman Calvìs precedeva il vecchio 
            di qualche lunghezza. Il vecchio Lamer qualche anno addietro era scivolato 
            da un pendio e portava ancora addosso i segni della rovinosa caduta.
 “ Sei fortunato Herman”, disse Lamer, “ho una tanica 
            di benzina e lubrificante a volontà”.
 Detto questo preparò la miscela mentre Herman Calvìs 
            attendeva impaziente. In un attimo fu pronta.
 “ Grazie”, disse Herman “come posso sdebitarmi?”.
 “ Corri a perdifiato per non mancare all'appuntamento” 
            disse Lamer strizzando l'occhio in segno di complicità.
 Herman Calvìs, seguì il consiglio. Sbilanciato dal peso 
            della tanica levò le gambe da terra, variando a volte il peso 
            da un braccio all'altro con la forza del desiderio. Batté il 
            record campestre di traversata. Peccato non fosse una gara. Con quella 
            motivazione, avrebbe sicuramente vinto.
 Giunto a destinazione, senza neanche rifiatare, versò il liquido 
            nel fedele..almeno sino ad allora.. due tempi.
 Prego con tutta la forza si accendesse subito. Primo strappo. Primo 
            Ruggito. Era andata.
 Il mattino era ancora pallido ma sereno. Herman Calvìs sobbalzava 
            con un misto di timore e forza temendo a ogni passo.. pardon...buca.. 
            un imprevisto. Arrivò alla sommità della collina. Oramai 
            era fatta. Quel maledetto motore si sarebbe anche potuto fermare ma 
            lui non avrebbe desistito. Avrebbe abbandonato la ferraglia lungo 
            la strada. Avrebbe corso giù fino a indoormar, seguendo ogni 
            frammento senza tregua di visione. Solo il fiato accelerato a fargli 
            compagnia. Invece il motorino faceva il suo dovere. Seguiva con perizia 
            la lunga e tormentata discesa verso il porto di indoormar, lambendo 
            le piccole insenature in cui tante volte Herman Calvìs aveva 
            trovato refrigerio nelle soste del viaggio.
 “ Arrivoooooo” gridò Herman Calvìs lungo 
            la discesa. Si vergognò un poco con sé stesso. Parlava 
            sempre sottovoce e oggi urlava. Alla terra, al mare, al cielo.
 Mancava ormai poco all'arrivo al porto. Herman Calvìs osservo 
            l'orario nell'orologio della torre campanaria post-moderna posta a 
            corollario della chiesa avveniristica. Erano le sette e un quarto 
            appena passate. Il cuore cominciò a cavalcargli in gola. Temeva 
            di non farcela e contemporaneamente il suo carattere rinunciatario 
            sperava che le cinesi fossero già partite. Intravide la banchina. 
            Non erano ancora partite. Nascondersi dietro l'angolo o raggiungerle? 
            Si buttò. Come mai aveva fatto. In meno di una manciata di 
            secondi era sulla banchina.
 Le cinesi lo salutarono con grazia e gentilezza.
 “Herman Calvìs, riuscito a venire, allora”, disse 
            una delle due cinesi.
 “ Sì, ho avuto qualche contrattempo ma alla fine ce l'ho 
            fatta “ disse ancora trafelato.
 “ Bene. Partire subito” disse l'altra cinesina con un 
            sorriso.
 Senza dire una parola salirono in tre sulla barca. Per l'esattezza 
            un gozzo appena riverniciato con la linea di galleggiamento blu marino 
            e qualche anno sul groppone. Filava liscio. Senza uno scossone. Le 
            prime luci del mattino brillavano in tremanti luccichii sulla superficie 
            del mare. Herman Calvìs non aveva mai abbandonato la terra 
            ferma. Era felice.
 Cala Serrada era sempre stata a un passo dalla sua vista. Sempre così 
            vicina eppure così irraggiungibile. Lo stato d'animo di Herman 
            Calvìs mutava come i colori del mare, il blu profondo e insondabile, 
            la serenità dello smeraldo, la bellezza trasparente dei fondali 
            più bassi.
 La bellezza di dimenticare il tempo.
 Poco più avanti altri gozzi. Altri cinesi in marcia verso la 
            spiaggia proibita oramai alle porte. Timidi saluti. Timidi sorrisi. 
            Herman si chiese se fosse giusto chiedere il nome alle due ragazze. 
            Decise per il no: tanto sarebbe stato troppo difficile pronunciarlo 
            e poi i nomi contano ben poco, si disse.
 “ Potere scendere, ora, Herman ” disse una delle cinesi 
            svegliandolo da un sogno.
 Herman Calvìs balbettò qualcosa e scese maldestramente 
            dal gozzo.
 Sparse a piccoli capannelli esili donne cinesi svestite prendevano 
            il sole nella cala. Le due donne scaricarono una piccola cassapanca 
            di legno posandola con garbo.
 “Herman,venire con noi?” gli chiesero le cinesi. “Noi, 
            andare nell'interno dell'isola”. .
 Herman disse che voleva riposarsi e rinfrescarsi un poco. Chiese se 
            poteva raggiungerle in seguito.
 “ Certo, seguire la strada maestra”.
 Mentre Herman si apprestava a chiedere altre spiegazioni le cinesi 
            afferrarono la cassapanca e si dileguarono in fretta verso la foresta.
 Herman si guardò attorno. Non si sentiva affatto intimorito. 
            Vagò per un po' sulla battigia. Si sentiva lontano, sospeso 
            nel tempo. Si tolse la maglietta. Prese per un po' il sole. Si immerse 
            nell'acqua per trovare refrigerio. Poi decise di seguire il sentiero 
            interno per raggiungere le due donne. Le altre donne cinesi presenti 
            sulla spiaggia lo guardavano divertite e impudiche.
 Si rimise la maglietta e si addentrò nella foresta. Il sentiero 
            era stretto e tortuoso ma andava avanti per un po' in maniera lineare. 
            Nessuna diramazione. Nessuna scelta. Ai bordi della strada Herman 
            intravedeva dei piccoli orticelli e su un altopiano in lontananza 
            una vigna. D'un tratto vide la strada interrompersi in una piccola 
            radura. A est un tratturo si inerpicava sul pendio, a ovest una discesa 
            dolce. Decise di far riposare le gambe. Lungo il declivio ricami d'ombra 
            tra gli alberi e una quiete appena disturbata dalla paura dell'ignoto. 
            Senza un perché gli venne in mente Barbuziente. Quell'uomo 
            gli aveva regalato dei libri, gli aveva aperto tante porte. Ora Herman 
            sentiva di aver varcato la soglia. Finalmente. La porta era aperta 
            e gli occhi gonfi di lacrime. Gonfi di tanta solitudine. Sentì 
            delle voci non troppo lontane. Affrettò il passo. Seguì 
            il suono dell'acqua. Pochi passi. Una laguna gli si aprì difronte 
            come una visione. Una cascata. Le cinesi erano poco più in 
            là. Con loro un vecchio che sedeva su una panchina di pietra. 
            La cassapanca chiusa.
 Herman si avvicinò. Voleva sapere.
 “Ciao Herman”, disse una delle due Cinesi.
 “Ci hai trovato” affermò l'altra con un leggero 
            sorriso.
 Herman era sempre stato restio a fare domande. Questa volta sentiva 
            di poter parlare.
 “ Chi è questo Signore?” chiese con titubanza.
 “ Nostro padre ” dissero quasi contemporaneamente le due 
            sorelle.
 “ Perché è nascosto?” chiese Herman.
 “ Lo proteggiamo dal mondo, lo custodiamo nella laguna, per 
            un periodo di riposo lontano dagli sguardi pietosi della civiltà” 
            disse una delle sorelle.
 “Di notte dorme nel villaggio a nord dell'isola” aggiunse 
            subito dopo.
 “Di giorno rimanere con noi” disse l'altra.
 Herman era stupito. La parola “custodiamo”, pronunciata 
            da una delle ragazze lo aveva sorpreso. Nessuno voleva custodire la 
            vecchiaia. Sentiva che tutti ne fuggivano. Tutti ne erano infastiditi.
 “La cassapanca cosa trasporta?” chiese Herman.
 “ Aprire..tu”disse una delle cinesi.
 Herman si avvicinò. Aprì la cassapanca. Era vuota. Guardò 
            stupito le cinesi.
 “ Il mio pranzo” disse ridendo il vecchio cinese.
 Le figlie risero di gusto. Herman scoppiò ugualmente in una 
            risata. Le apparenze sono ombre. Le nudità spesso allontanano 
            la stupidità. Il vecchio prese un vecchio foglio ingiallito 
            e lo pose a Herman. C'erano strani segni incomprensibili. Herman ripose 
            il foglio in tasca. Sulla strada del ritorno non ci fu una parola 
            tra lui e le due sorelle. Arrivati sulla banchina si salutarono con 
            garbo e dolcezza.
 Barbuziente stranamente non c'era.
 Herman prese la via del ritorno, felice di quello che aveva visto. 
            Nella fretta di rientrare a casa perse il vecchio foglio ingiallito 
            sul molo e quasi se ne dimenticò anche l'indomani.
 Posapiano
  Walter detto 
            “posapiano” in quell'afosa notte scriveva. La pancia gli 
            scoppiava. Il corpo gli doleva.Amava l'intimità dei luoghi vissuti e natii e la magnifica 
            inebriante estraneazione delle vie sconosciute.
 Amava le persone che fanno grandi i piccoli luoghi, e le grandi persone 
            che colgono le infinite innumerevoli possibilità delle megalopoli 
            riuscendo nella loro battaglia onesta coi propri dèmoni.
 Talento e costanza. Rabbia e amore. Odiava chiedere aiuto e ancor 
            di più le persone a cui aveva dato tanto e che non si proponevano 
            di dargli una mano quando era in uno stato di vera necessità 
            esistenziale.
 Era convinto che le crisi etiche, generazionali ed economiche creino 
            entità indefinibili,irriconoscibili,decisamente più 
            impalpabili e subdole dei vecchi mostri.
 Credeva che l' unica compatibilità tra la poesia e la politica,risiedesse 
            nell'identicità delle prime due lettere di ciascuna parola; 
            e che fosse più facile dare il voto a un becchino che a un 
            ufficiale giudiziario con il coraggio di candidarsi.
 Diceva anche che la vera letteratura scaturisce sempre dal dolore,da 
            quel dolore che continuamente fuggiamo,e che continuamente ci assale,alimentando 
            le nostre ossessioni,visioni,vibrazioni;quello stesso dolore che soggiace 
            perennemente al nostro eterno bisogno di armonia,dentro un cumulo 
            d'universo funambolico sull'orlo di un abisso di silicio. Maledetti 
            scostanti giocolieri di versi sufficientemente sobri di mente per 
            non scadere nel delirio. Poeti, gentili e inquieti.
 Walter, detto Posapiano, non aveva più sogni,ma solo rabbia. 
            Eppure era immerso nelle parole, imprigionato in una cella il cui 
            fiume sotterraneo rompeva gli argini per straripare in copiose parole. 
            Solo una manciata di lividi a contorno del buio. Il nulla, era la 
            durezza della vita che ancora non riusciva a rivestire d'indifferenza 
            il suo cuore. Non riusciva a gioire dell'altrui stupidità. 
            Lunghi tempi di saturazione fanno implodere le sillabe prima di trovare 
            la luce.
 Walter si alzò,uscì nella solitaria strada montana e 
            prese a camminare,come tante volte aveva fatto.
 Mentre discendeva la valle vide un uomo barbuto, su una vecchia bici, 
            che faticosamente arrancava in salita.
 L'uomo lo salutò. Walter rispose al saluto e chiese all'uomo 
            scherzosamente se il traguardo fosse molto lontano.
 L'uomo barbuto si fermò.
 “Sulla terra non c'è un traguardo”-rispose- “solo 
            passaggi e cicli”.
 “ Venga a bere un buon bicchiere di vino da me” disse 
            Walter, che da tanto tempo non scambiava con qualcuno due parole. 
            “La mia baita, non è molto lontana”aggiunse.
 “Va bene, farò volentieri una sosta”disse l'uomo 
            barbuto,stremato dalla salita.
 Detto questo risalirono verso la baita, senza dire una parola.
 Appena entrati Walter invitò il forestiero a sedersi al tavolo. 
            Versò del vino rosso in due bicchieri e chiese allo straniero 
            il suo nome.
 L'uomo barbuto disse di chiamarsi Gerome e di esser stato un marinaio.
 “ Ormai, non navigo più da un pezzo, ho deciso di girare 
            con la bici in lungo e in largo, con i piedi ben saldati a terra” 
            aggiunse balbettando vistosamente.
 Walter si incuriosì subito per l'affermazione di Gerome e decise 
            che voleva saperne di più.
 “Eri imbarcato da tanto tempo?”chiese.
 “Ero mozzo sul transatlantico “Oltrelostretto”, 
            partivamo da Città Sfiorita nel nord europa, per sbarcare al 
            molo del sud America, nella città dei santi”.
 “ Per oltre un mese bivaccavamo, tra donne e liquori, credo 
            fossimo di tutto meno che asceti”aggiunse ridendo.
 “Non hai moglie, o famiglia?”chiese Walter.
 “No,sono partito molto giovane da un piccolo paese di montagna 
            come questo, senza più farvi ritorno”disse, con una punta 
            d'amarezza.
 “Ero il più piccolo di una famiglia numerosa, sognavo 
            di viaggiare..ho visto tanto ma perso tanto nella lontananza”aggiunse 
            Gerome abbassando lo sguardo.
 “ Io, invece”, disse Walter “non ho mai avuto il 
            coraggio di partire”.Mentre proferì con rassegnazione 
            e rabbia queste parole, posò con una lentezza inaudita il bicchiere 
            sul tavolo.
 Gerome notò la sua inquietudine e non osò fargli nessuna 
            domanda. I marinai sanno, quando è meglio tacere e non andare 
            oltre.
 L'ospite fece per alzarsi ma Walter gli chiese di rimanere ancora 
            un po', e trattenersi a cena per continuare la discussione.
 Gerome, all'inizio cercò di rifiutare, poi spinto dall'ora 
            tarda e dalla fame incombente decise di accettare l'invito.
 Walter attizzò il fuoco con altra legna,mise un paio di braciole 
            ad arrostire nell'enorme rustico camino e nella cucina a legna riscaldò 
            una zuppa di lenticchie che aveva preparato nel pomeriggio.
 Da tanto tempo non aveva ospiti a cena e sentiva il bisogno di scambiare 
            qualche parola con qualcuno.
 “Bella la tua baita” disse Gerome.
 “ L'ho ereditata da mio nonno dieci anni fa, dopo la sua morte, 
            era un famoso scalatore.Un uomo dolce e rude come queste montagne”disse 
            Walter, non senza un filo di commozione.
 Walter offrì allo straniero anche formaggi da lui prodotti, 
            e per finire squisiti dolci di mandorle accompagnati da un digestivo 
            di erbe montane.
 “Non ho mai visto il mare”confesso Walter a Gerome, all'improvviso.“Non 
            ci crederai, ma nell'epoca dei viaggi a basso costo, non sono mai 
            riuscito a vedere il mare”.
 Gerome rimase sorpreso dall'affermazione di Walter.
 “Si può sempre rimediare”disse il marinaio “ 
            nel centro di Boltan, a valle, c'è un treno che ogni giorno 
            viaggia verso la costa del marmo, non sarà il mare dei raicabi, 
            o della ardegnas, ma vale la pena di vederlo”aggiunse.
 “Devo ultimare l'ultimo romanzo, e poi...forse..andrò 
            a vedere il mare”disse Walter.
 “Si è fatto tardi”disse Gerome “è 
            ora che continui nel mio vagare tra i monti alla ricerca del mio paesino 
            perduto..ho paura..però”.
 Walter comprese che Gerome aveva paura di non trovare più il 
            suo passato e rifuggiva la mèta di continuo.
 “Se vuoi puoi passare qui la notte e l'indomani ripartire” 
            propose Walter.
 “No disse Gerome, la nottata è fresca ma il chiarore 
            della luna mi indicherà la strada, non posso più perdere 
            tempo”.
 D'un tratto si alzò di scatto, saluto e ringraziò gentilmente 
            Walter per la cena e uscì nel buio salutandolo con la mano.
 Walter quella notte non riuscì a dormire. Ultimò il 
            suo romanzo con gorghi di parole e una frenesia inaudita di concluderlo,quasi 
            fosse il suo testamento. L'indomani,appena entrato in cucina, ritrovò 
            un foglio ingiallito sulla sedia in cui la sera innanzi stava seduto 
            Gerome. Mise il foglio in tasca riproponendosi di leggerlo non appena 
            sarebbe arrivato a Boltan. Il mattino era ancora freddo, sulla camicia 
            mise un pesante maglione, calzò un paio di scarpe comode e 
            robuste per affrontare i chilometri che lo dividevano dal centro maggiore 
            della zona, bevette un caffè lungo e amaro e uscì carico 
            d'angoscia. Stava per affrontare il primo viaggio della sua vita.
 Vite di superficie
 La mia non è una generazione,
 è un surrogato di individualismo
 e indifferenza che naviga tra buie pareti.
 “Non c’è immagine più attraente, di una 
            bella donna che ti passa davanti portandosi dietro una valigia”. 
            Era questa la frase che ripeteva spesso. Nella sua mente non figurava 
            partenze verso luoghi esotici e sconosciuti, ma solo ritorni. Ritorni, 
            nelle luoghi dove i sogni si mescolano alle radici. Ritorni, nelle 
            case dell’affetto sottratto dalle partenze, motivate da mille 
            sentimenti, necessità o ambizioni.
 Quel fine settimana decise di tornare a casa. Negli ultimi tempi sentiva 
            nostalgia per la sua famiglia e il forte desiderio d’indipendenza 
            iniziale era quasi sparito. Aveva preso l’ultimo treno e non 
            aveva avvertito i suoi del rientro.
 Affacciandosi al finestrino pensò che non ci sarebbe mai stato 
            lo stesso uomo a vedere le stesse cose, ad esser visto dalle stesse 
            persone. L’umanità pulsante viveva i suoi attimi sconosciuti 
            portandosi dietro bagagli invisibili, mostrando solo corpi in eterna 
            mutazione, sconosciuti volti scolpiti dal tempo. Il vagone era semivuoto. 
            Solo una giovane donna sedeva di fronte a lui e sembrava sicura e 
            assorta nei suoi pensieri
 Aveva passato la solita settimana in città, fatta di lezioni 
            all’università, pause caffè, pizze in compagnia 
            e locali frequentati da studenti. Era di qualche anno in ritardo con 
            gli studi e non amava particolarmente la facoltà che aveva 
            scelto. Il giorno prima di partire una ragazza l’aveva ferito 
            a morte e non riusciva a dimenticare quella parole. Risentiva in continuazione 
            le parole dette al suo amico: “Non do il mio numero a cani e 
            porci”. Parole, che a molti sarebbero scivolate addosso. Non 
            a lui, però, che da sempre diventava rosso a ogni parola detta 
            o sentita. Non a lui, che aveva sempre rinunciato a lottare per paura 
            di vincere o offendere qualcuno. Sentiva forte, il desiderio di appartarsi, 
            come quando si deve prendere una decisione importante e non si può 
            più rimandare.
 Era continuamente assalito dall’idea pungente che gli altri 
            sapessero vivere meglio di lui. Si chiedeva in continuazione quali 
            maledetti scompensi non gli avessero dato stabilità emotiva.
 Decise, che avrebbe bruciato il suo disordine esistenziale in un falò 
            della memoria.
 Aveva per anni ingannato il tempo sottraendosi ai doveri. Anche se, 
            la provenienza da una famiglia agiata gli aveva evitato le umiliazioni 
            che il suo carattere orgoglioso non avrebbero sicuramente retto sentiva 
            mancargli qualcosa, si sentiva in debito con la fortuna. D’altro 
            canto, era colpa sua se non aveva sfruttato al meglio le opportunità 
            che a molti la vita negava e per non aver reso felice chi gli aveva 
            voluto bene.
 L’odio, spesso gli scorreva nelle vene, e oscillava tra il desiderio 
            di distruggersi o distruggere gli altri. E più volte, gli passava 
            per la mente l’idea di una vita da eremita borghese.
 In fondo a ogni unione, c’è la paura di rimanere soli, 
            vivere soli, morire soli. Stare in solitudine, per una scelta propria 
            o degli altri è un atto di vigliaccheria e di coraggio insieme. 
            Non sapeva se avrebbe retto.
 Non voleva essere timbrato a fuoco con un nome; sempre immerso nell’attimo 
            eterno in cui sarebbe vissuto e morto; fugace nella mente di chi l’ 
            avrebbe conosciuto o sfiorato, nella menzogna vestita di verità 
            che ognuno ha degli altri. Voleva esprimere la sua poesia senza svenderla, 
            donando una parte di sè stesso al mondo. Cosa avrebbe lasciato? 
            Solo comode stanze, dove all’imbrunire aprire le imposte e chiudere 
            il suo cuore.
 Forse, doveva imparare ad amarsi e ad amare gli altri. Invece, era 
            sempre trasandato nell’aspetto e ogni persona lo irritava e 
            lo stancava. E finiva per odiarla e tradirla.
 Il treno si fermò alla prima stazione. Salì un solo 
            uomo da quella stazione e si sedette dirimpetto a lui. Aveva l'aria 
            di un montanaro,con indosso pantaloni di flanella e un maglione pesante 
            oltre a pesanti scarponi ai piedi. Notò la lentezza dei movimenti 
            dell'uomo nel sedersi.
 Dorian lo osservò per un istante,poi tornò ai suoi pensieri. 
            Pensò al rientro a casa, alle passeggiate nel verde della campagna 
            autunnale, alle feste che il suo cane gli avrebbe fatto. Pensò, 
            a quanto sarebbe stata indifferente agli amici la sua assenza. Pensò, 
            a come la poesia aveva sopperito per anni al suo male di vivere, alle 
            mancanze dell’animo, alle rinunce volontarie, alla mancanza 
            di coraggio. Allo stesso tempo sentì forte, il desiderio di 
            rimanere per sempre su quel treno. Sentì forte, il desiderio 
            di non essere mai più deriso da nessuno e scomparire.
 Le immagini della sua vita scorrevano e si accavallavano, e ogni istantanea 
            lo feriva.
 Si alzò in piedi avvicinandosi al finestrino. Lo aprì. 
            Sentì forte l’inquietante rumore metallico e l’aria 
            fredda. Osservò il mattino inoltratro. Vide le luci lontane. 
            Il volto di sua madre, la voce di suo padre.
 Ma la sua vita, era ancora riflessa nel buio, e odiava il suo volto. 
            Da sempre lo odiava. Ma sentiva, per compenso, la forza quasi animale 
            che pulsava nel suo corpo giovane e sano, e il suo istinto di conservazione, 
            lo chiamava. Il suo piccolo cuore pulsava nella sopravvivenza eterna.
 Si appoggiò al finestrino.
 Fissò il vuoto, distorto freneticamente dal movimento del treno.
 “Ehi ragazzo” disse l'uomo che gli sedeva davanti, svegliandolo 
            dal suo isolamento.
 “Sì” disse Dorian.
 “ Quanto manca per arrivare alla costa?”
 “Altre cinque fermate, signore, arriverà per la sera”.
 “Tu scendi a breve o prosegui sino al capolinea?”chiese 
            il montanaro.
 “Scenderò alla prossima stazione signore”disse 
            Dorian.
 “Ti vedo pensieroso”disse l'uomo“Qualche problema 
            ti affligge?”
 “Niente in particolare” rispose Dorian.
 “Senti, scusa se mi sono permesso di farti domande, ma anch'io 
            alla tua età soffrivo l'isolamento umano..prima che tu vada 
            voglio regalarti questi foglio..sento che ne avrai bisogno”.
 Nel frattempo il treno stava per fermarsi. Dorian prese il foglio 
            ingiallito e lo mise in tasca.
 Salutò con un cenno il montanaro, prese la valigia e si preparò 
            a scendere alla sua fermata.
 La stazione era la sempre linda e accogliente. Salutò il capostazione 
            e si incamminò verso casa.
 Dopo alcuni passi vide un vecchio seduto su una panca di lato a una 
            fontana. Decise di avvicinarsi per bere.
 “La solitudine non è più un male dell'inverno 
            ma la condanna della primavera”disse il vecchio.
 Dorian aveva sempre visto quell'uomo, e improvvisamente si ricordò 
            che in paese era considerato una specie di pazzo. A volte, il vecchio 
            era preda di violente furie. Da giovane,l'uomo si era salvato da un 
            violento sisma in una terra lontana, e da vecchio era ritornato in 
            paese. Ebbe un moto di paura e si affrettò a bere per andar 
            via. Si ricordò che l'uomo aveva una passione per i giornali 
            e la carta: prese dal taschino il vecchio foglio ingiallito regalatogli 
            sul treno e glielo diede. Il vecchio rise e ammirò stupito 
            l'inatteso regalò. Dorian lo salutò in tutta fretta 
            e proseguì verso casa.
 Troppi incontri, per quella sera, gli avevano scosso le corde dell'esistenza 
            senza infrangere gli argini del suo mondo.
 Tremore notturno
 Non so come 
            sia possibile.Non so cosa mi assalga in certe notti di fine agosto.
 Quando mi è difficile sentire dalla finestra di ponente lo 
            sciabordio dell’acqua,
 quando non posso neanche calare la tetra fune dal mio ballatoio montano;
 sarà semplicemente il peso insopportabile di questa vita, viva, 
            mediocre e normale, e bella, e tagliente, o la mancata rassegnazione 
            di un istante.
 Per non parlare dei morsi crudi della coscienza che non smette di 
            perseguitarmi o la mia amorale asocialità di una notte.
 Il vento ha mosso alcuni fogli di carta bianca scomponendoli sulla 
            stampante, da troppo tempo non usata.
 La pizza che ho mangiato era una schifo. A volte succede. Poco male.
 Poco male anche il vaneggiamento di una notte o lo scritto che pregusta 
            già occhi avidi di lettura e i programmi televisivi abbandonati, 
            i libri che non riesco a leggere, la maschera che non getto più 
            neanche per un maledetto istante.
 Il richiamo di un viale alberato, che per una notte non avrà 
            una figura pesante e sorridente a calcare il suo oscuro palcoscenico 
            di comparse, mi accarezza senza sorridermi.
 Ripetitivi battiti. Incolori. Tagliola di sogni. Potessi mostrarvi 
            il cuore lo laverei nell'indecenza
 del compromesso.
 Un cumulo di macerie nel sole ombreggiato delle reminiscenze. Nessun 
            fuoco a scaldare il mio eremo.
 Queste, erano le frasi ricorrenti nella mente di Bàstia, nel 
            percorso che ogni giorno compiva da casa sino alla bottega per acquistare 
            il pane. L'unico suo momento sociale per scambiare due parole con 
            la graziosa commessa.
 “Come va, oggi, signor Bàstia?” chiese la commessa 
            gentilmente,come ogni giorno usava fare.
 “Più o meno come ieri”ripose l'uomo abbozzando 
            un riso sconsolato.
 “Vedrà, che la bella stagione le allevierà qualche 
            malanno”disse con dolcezza la ragazza.
 “Speriamo, mi passino anche i malanni dell'animo”rispose 
            l'uomo.
 “Non riesco a dimenticare..quel tremore”aggiunse.
 “Lo so.”disse la ragazza. “Preghi Dio per essersi 
            salvato. Ora, poteva non essere più qui a parlarne”.
 “Cercherò di superare..”disse Bàstia poco 
            convinto.
 Detto questo, salutò la ragazza con la mano e si incamminò 
            per il paese. Bastià aveva solo quarant'anni ma in paese, a 
            causa del suo aspetto, tutti lo consideravano un vecchio. Era ancora 
            giovane ma già viveva gli acciacchi del tempo. La paura che 
            aveva provato, dieci anni prima, quando nella sua casa in legno aveva 
            sentito quelle scosse l'avevano caricato di anni. Non riusciva a dimenticare 
            quella sera di tanto tempo fa, quando fu l'unico in quel paese a salvarsi. 
            Tutti a quell'epoca lo deridevano perché aveva costruito una 
            casa in legno ai margini di un abitato in pietra, e lo ritenevano 
            un pazzo perché un qualsiasi incendio avrebbe ridotto l'abitazione 
            in cenere.
 Bàstia si sedette come ogni mattino sulla panca a lato della 
            fontana. Difronte a lui, coperto da una pila di cartoni dormiva Jan 
            il vagabondo, l'unico senzatetto del paese. Dormiva e sembrava delirasse 
            nel sonno e apriva le mani, come per afferrare qualcosa, e si rivolgeva 
            a Bàstia con il volto, senza mai aprire gli occhi. Bàstia 
            gli porse il foglio ingiallito, con un gesto naturale e meccanico 
            insieme. Jan continuò a dormire tenendo ben stretto nel pugno 
            il foglio.
 Bastià continuò a osservarlo per qualche minuto. Poi, 
            come ogni giorno, prese a fissare l'acqua sorgiva che sgorgava dalla 
            fontana, e si perse in quella meravigliosa visione, che ogni mattino 
            gli faceva vivere un nuovo miracolo.
 I flauti della gogna
 Castelli d'amianto. 
            Labile confine sull'orlo dell'insofferenza”. Parlavo col silenzio.“Sferzate di grandine. Tintinnio di metallo”. Continuo 
            a non tacere.
 Voraci agnelli
 che bramano sangue pasquale.
 Sconfinati deserti di maggio.
 Rintocchi di desolazione.
 Jan si risvegliò con la bocca impastata e un forte mal di testa. 
            La fontana era deserta. Vide, in lontananza, un vecchio di spalle 
            arrancare sul sentiero. La fontana,ora, era deserta. Nel pugno teneva 
            un foglio ingiallito. Gli diede uno sguardo distratto, e senza pensarci 
            molto lo gettò sugli altri cartoni, che per lui erano preziose 
            lenzuola e coperte nelle notti passate all'addiaccio,da conservare 
            gelosamente. Si avvicinò alla fontana, si lavò il volto 
            trovando subito un po' di sollievo.
 Era tornato in paese dopo aver girato con alterne fortune per mezzo 
            globo. Nel frattempo i suoi familiari erano tutti morti, e alcuni 
            vicini famelici gli avevano usucapito la casa e un piccolo podere. 
            Così, senza il coraggio di partire un'altra volta, si era abbattuto 
            a tal punto da finire sulla strada e vivere di elemosine. La sua salute 
            era oramai minata dal freddo degli inverni ma mai e poi mai si sarebbe 
            fatto visitare da un dottore, come molti compaesani gli avevano proposto:considerava 
            i dottori il prologo della camera mortuaria.
 La prima immagine, rientrando in paese era stata quella di un vecchio 
            conoscente, seduto difronte al bar del paese, sempre sulla stessa 
            sedia. Probabilmente, quell'uomo, non si era mosso più di cento 
            metri nella sua vita. Per lui, nulla era cambiato, se non l'avanzare 
            del tempo sul viso. Jan, sentì un moto d'orgoglio nell'esser 
            stato così differente da quell'uomo, d'aver avuto un'anima 
            viaggiante. Ora, però, doveva far conto con le cattive coincidenze 
            che l'avevano portato a tornare senza un quattrino e fugare l'orgoglio.
 Mentre continue coincidenze scrivevano i suoi giorni, come amava ripetere, 
            l’umanità pulsante viveva i suoi attimi a lui sconosciuti, 
            si arricchiva, rubava, lo calpestava e ai più era semplicemente 
            invisibile.
 Questa, era la vita di Jan. Come ogni mattino, nascose i cartoni dietro 
            alla fontana e si incamminò verso la stazione a elemosinare 
            qualcosa per il pranzo.
 Arrivato in stazione entrò nel bar di Donna Oriunda, una signora 
            enorme e gentile che appena lo vide gli preparò subito il caffe. 
            Quando il marito non era presente,offriva sempre a Jean il caffè 
            con un pezzo di torta. Così fece anche quel mattino. Jan sorseggio 
            il prezioso corroborante, mangiò la fetta di torta, e dopo 
            aver ringraziato educatamente la donna uscì nell'atrio della 
            stazione. Un ferroviere, appena lo vide, gli fece cenno col capo. 
            Jan lo seguì.
 “Jan. Tra cinque minuti arriva il primo treno, tieniti pronto 
            a trasportare i bagagli dei passeggeri che chiederanno il servizio. 
            Sino alle dodici sarai impegnato:oggi viaggiano i magnati con i treni 
            privati.”disse il ferroviere.
 “Va bene. Speriamo siano lauti con le mance. Grazie di permettermi 
            di lavorare”disse Jan.
 La mattina scorse come al solito, e Jan mise insieme un gruzzolo di 
            denaro sufficiente per mettere su un buon pasto per il pranzo e la 
            cena. La sera non rimaneva mai in stazione, perché i treni 
            erano pochi e i controlli molti. Così, dopo aver comprato in 
            una bottega pane e formaggio, si incamminò verso la fontana 
            per recuperare i cartoni che gli sarebbero serviti per la notte.
 Dietro la fontana ebbe l'amara sorpresa. Le sue preziose lenzuola 
            erano sparite. Lo spazzino, svolgendo regolarmente il suo servizio 
            le aveva raccolte e portate al centro di smistamento. Tutto questo, 
            per una persona normale e in un tempo normale non sarebbe stato un 
            problema;ma in tal periodo c'era penuria di alberi, frutto di tagli 
            scellerati delle foreste, e il riciclo bastava appena per le normali 
            attività. Il freddo, ora, per Jan, sarebbe stato più 
            pungente.
 Marietta Argan, gli venne incontro per parlargli, con aria dispiaciuta.
 “Jan, c'era un nuovo giovane in servizio oggi, il vecchio Tullian 
            è andato in pensione. Il ragazzo ha buttato via i cartoni. 
            Quando me ne sono accorta era già partito.”
 “Non fa niente disse Jan. In qualche modo rimedierò”.
 Così, se ne andò oltre la fontana,con un passo desolatamente 
            triste e scomparve per sempre dal paese, in cerca di meno sfortuna, 
            recitando queste incomprensibili parole: “Ho sentito note di 
            vergogna nei flauti della gogna”.
 Jan era ancora un uomo libero.Se per libertà s’intende 
            non essere schiavi di meccanici lavori e indispensabili amori poteva 
            ritenersi un uomo libero. Liberarsi. Liberarsi di questa sporca vita 
            di sussistenza. Desiderava solo stordirsi con paesaggi che lo liberassero 
            da pensieri e fantasmi.
 La sua era un'andatura cupa tra le faglie della vita, eppure in quei 
            passi scuri si poteva intuire una speranza. La speranza di una rinascita 
            dentro una forte rassegnazione.
 Le luci lo inondavano di un tenue chiarore.
 Lo aspettava un lungo cammino.
 Nessuno, seppe più niente di lui.
  Gli opportunisti
  II mattino era limpido e freddo, fasci terreni di sole riscaldavano 
            assonnati viaggiatori e cullavano vecchi sdentati come bambini.
 Casbon, era alla sua seconda giornata di lavoro come spazzino. Era 
            un teologo. Nella sua profonda e sincera umiltà, gli sembrava 
            che raccogliere la mondezza dell'umanità fosse la cosa che 
            più lo potesse avvicinare a Dio.
 Per questo, aveva deciso, nonostante il parere contrario della famiglia, 
            pur di rimanere in paese, di accettare quel lavoro. Giovane brillante, 
            dotato di grande inventiva e umiltà, aveva sconcertato con 
            questa decisione la sua famiglia:una delle più importanti in 
            paese. L'unico ad aver appoggiato la sua iniziativa ero lo zio prete, 
            col quale si incontrava ogni sera per parlare di politica e poesia, 
            eludendo scrupolosamente la religione, anche se non sempre gli riusciva.
 La prima giornata di lavoro non era andata male, aveva svolto in maniera 
            zelante il suo mestiere, recuperato molto cartone e conservato uno 
            strano foglio ingiallito, con caratteri cinesi che avrebbe sicuramente 
            portato allo zio per farselo tradurre.
 Aveva radi rapporti con i suoi coetanei in paese perché li 
            trovava sciocchi e insensibili e infettati da una sterile invidia 
            e malattia di protagonismo. Più volte aveva iniziato a scrivere 
            un romanzo ma non era riuscito a completarlo: sentiva che la sua coscienza, 
            come la sua generazione, era troppo frammentata per una lunga narrazione 
            avvincente, svilita dal calderone dove tutto appare e scompare in 
            un istante. L'inizio del romanzo, che aveva intitolato “gli 
            opportunisti”, iniziava in questo modo:
 Scacciali…. Non 
            li voglio vedere…..quei brutti visi……. luridi e 
            fasulli Come 
            i loro corpi…..squallidi….si………hai sentito 
            bene…….squallidi Sputi ironici sul mio viso;
 briciole avanzate di disgustose colazioni
 spezzate da mattutini opportunismi.
 Tossici 
            rifiuti per tossiche realtà.
 Vago
 brucio
 calpesto
 non 
            mi insozzo di voidei vostri meschini giochi
 da merde fumanti.
 Peccato….
 Non riuscirete….
 Non riuscirete a coprire il vostro stesso tanfo,
 quando annegherete nel vostro egoismo.
 Allora,allora si, che la sentirete strisciare!
 Non 
            riderò.No! Non riderò….
 Non 
            vi stenderò neanche la manoquando tutti…tutti….
 Vi avranno abbandonato.
 Non 
            sarò accanto a voi, quando mi vorrete. Quando 
            il vostro stesso male vi giustizieràmescolerò due lacrime a un mesto sorriso.
 “Trovare un po' d'umanità nell'uomo moderno, è 
            come scovare della polvere d'oro setacciandola nel bagno di un ospedale 
            pubblico”ripeteva spesso Casbon. La sua fede non era ancora 
            tanto forte da togliergli gli ultimi residui di rabbia e misantropia 
            mistica.
 Lo zio Yvan,era rientrato in giornata da una delle sue tante missioni 
            all'estero. Casbon, decise di andarlo a trovare a casa, per una delle 
            solite discussioni serali che avvenivano ai suoi rientri.
 Lo zio Yvan, era un missionario che ogni tanto faceva ritorno in paese 
            per un breve periodo e aveva un'avversione per la chiesa ufficiale. 
            Conosceva una decina di idiomi e leggeva i testi sacri in aramaico. 
            Aveva anche, un forte attaccamento alla sua terra che avrebbe voluta 
            amministrata dagli “indigeni montani”, come definiva gli 
            abitanti del suo paese, invece che dai cantoni stranieri ai confini.
 Arrivò nella casa paterna, in cui lo zio, fratello del padre 
            di Casbon, viveva dopo i lunghi soggiorni nelle varie parti del globo. 
            La grande casa, in stile rustico, era stata riempita in ogni angolo 
            di tomi e riviste e imperava un ordine sempre proteso al caos.
 Casbon, prima di entrare,vide lo studio al piano superiore della casa 
            illuminato. Così, dopo aver bussato inutilmente entrò 
            comunque in casa, dato che la porta non era chiusa dall'interno. Lo 
            zio, oltre a essere un po' sordo, si perdeva nei pensieri e nei libri.
 Appena entrato in casa Casbon lo chiamò a gran voce:
 “Zio Yvan..zio Yvan sono arrivato” disse.
 Lo zio, tornato alla realtà dopo una lettura impegnativa sentì 
            finalmente il ragazzo e rispose.
 “Scendo subito, Cabon..versami un Rum per favore ma non berne”disse 
            ridacchiando. Sbagliava sempre il suo nome apposta e lo pronunciava 
            in indomontano antico, l'inguaribile purista, e Casbon si era stancato 
            di dirglielo.
 Il ragazzo gli versò il rum e aspettò ancora qualche 
            minuto l'arrivo dello zio. Lo vide scendere dalla scala, gli sembrava 
            ancora più magro e lungo delle scorse volte, scarno in viso 
            e con l'immancabile pipa di radica in mano e degli insoliti basettoni 
            incolti.
 “Che strano prete, che strano zio”pensò il ragazzo, 
            ridendo dentro sè compiaciuto.
 “Com'è andata l'ultima missione?”chiese Casbon.
 “Cabon, la terra del raggio verde è orgogliosa e indomita, 
            come la sua gente. Ho passato più di tre mesi in un paesino 
            vicino al castello Wacell ma inutilmente: ognuno prega il suo dio 
            e le sue derivazioni umane, e così sia: amo la gente di carattere 
            che non si fa piegare. Siamo della stessa tempra. Poi, detto tra noi, 
            le istituzioni si sgretolano continuamente ma le radici del vangelo 
            sono universali”disse Prete Yvan.
 “Sì..Zio. Probabilmente, questo Dio si è divertito 
            a comparire in varie epoche e cambiarsi il nome, giocare coi linguaggi, 
            vivere per gli animisti in ogni angolo di natura remota, essere un 
            dèmone passionale per eremiti,mistici e poeti contemplativi”affermò 
            il ragazzo mentre gli occhi gli brillavano.
 Lo zio Yvan sorrise a quel giovane così brillante e sensibile. 
            Fu orgoglioso di quel nipote così lontano dallo stereotipo 
            del giovane definito moderno.
 “Come va il romanzo?” chiese lo zio.
 “Non trovo il giusto ritmo, la giusta concentrazione per procedere,zio” 
            disse Casbon.
 “Forse, avresti bisogno di appartarti un po'.Di un periodo di 
            isolamento creativo in mezzo alla natura rassicurante”disse 
            prete Yvan.
 “Vorrei farlo, ma ho incominciato da un paio di giorni a lavorare 
            come netturbino e non posso già chiedere delle ferie”disse 
            Casbon.
 “Il lavoro,nemico di poeti e romanzieri,quasi li uccide”disse 
            con fare ieratico lo zio.
 “Come ha preso tuo padre questa scelta? Nella nostra famiglia 
            sono tutti notabili a eccezione dello zio prete scapestrato giramondo” 
            aggiunse ridendo.
 “Non molto bene. Dice che dovrei avere più ambizione 
            ma io non voglio andar via e in paese puoi fare il teologo ma senza 
            guadagnarci nulla. Mica sono un prete”disse il ragazzo trattenendo 
            una sonora risata.
 “Bene..bene” disse Yvan incassando la battuta “questa 
            volta non mi tratterrò molto in paese, ho chiesto di poter 
            andare in un'isoletta del mar del sud, in cui imperversa un'epidemia, 
            nei prossimi giorni farò i vaccini, il passaporto è 
            pronto....”aggiunse.
 “Vuoi partire con me ragazzo?..ah..dimenticavo..non puoi lasciare 
            il tuo lavoro”
 continuò prete Yvan in uno strano sussulto di tristezza.
 “Vieni a cena da noi zio? Tuo fratello sarebbe felice di vederti. 
            Lo sai, vero?”disse Casbon.
 “Digli che lo ringrazio ma che non sto bene. Poi...tu sai come 
            andrebbe a finire la nostra eterna lotta tra spiriti differenti.”disse 
            prete Yvan.
 “Piuttosto. Perché tu non rimani a cena. Rientrando sono 
            passato in bottega a comprare l'occorrente per preparare la cena. 
            Avverti per telefono tuo padre e trattieniti da me. Mi farebbe piacere”continuo 
            Yvan.
 “Va bene, zio. Salgo a telefonare al piano di sopra. Poi apparecchio 
            e facciamo una bella cena”.
 Così, lo zio mise sulla griglia del camino un paio di grosse 
            bistecche e la cena scivolò tra carne, salumi e formaggi.
 Dopo cena, mentre Casbon sorseggiava difronte al fuoco un digestivo, 
            lo zio fumava la pipa e beveva un Aguaporojos .
 Il silenzio imperava sereno.
 Casbon ruppe l'atmosfera.
 “Zio. Stamattina ho raccolto un foglio in uno strano idioma 
            mentre lavoravo. Vorrei che tu lo tenessi. Non voglio sapere cosa 
            c'è scritto. Potevo farlo tradurre nel negozio orientale ma 
            non ho voluto. Sento che sono parole che non mi appartengono. Io ho 
            una sola casa, una sola lingua. Tu hai radici forti, ma sei anche 
            sempre pronto a volare per sete di conoscenza e amore degli altri”.
 Detto questo, Casbon porse il foglio allo zio. Lo abbracciò 
            forte, come mai aveva fatto, lo ringraziò per la cena e senza 
            dire un'altra sola sillaba uscì nella notte.
 Prete Yvan lo osservò dalla finestra andar via. Prese un trattatello 
            di Schopenhauer che da tempo voleva finire di leggere e salì 
            nello studio. La mente però volava altrove e non aveva neanche 
            sonno. Mise in valigia il foglio ingiallito datogli dal ragazzo. Decise 
            che l'avrebbe letto solo quando sarebbe arrivato sull'isoletta in 
            cui si sarebbe svolta la sua missione. Solo a mattino inoltrato prese 
            sonno, proprio mentre il nipote iniziava a lavorare.
 Il 
            piacere nell'assenza L'anfratto del mondo è verità
 la morte tenebrosa luce
 la rassegnazione saggezza
 il delirio febbrile peccato e tormento
 la quiete estasi naturale,protezione della mente
 la sopportazione coraggio
 i versi un sudario di bellezza e conforto
 alcuni eremitaggi,la sincerità ostinata e l'inesauribile ricerca 
            dei grandi uomini.
 Siamo esseri che si possono perdere…in mezzo allo spazio…in 
            mezzo al tempo. Insane manie di apparenza, grandezza e perfezione, 
            e assillanti ossessioni, possono distruggerci.
 Eppure sono cosciente, spietato e lucido e non voglio varcare nessun 
            confine. Voglio rimanere aggrappato alla terra. È necessario 
            far scorrere il tutto con semplicità. Ho paura. Ho scavato 
            per anni. Forse per troppo tempo. Il mio mondo interiore non deve 
            vacillare. Non devo forzare la mia mente. Ma questo vagare del mio 
            pensiero in zone proibite, mi vuol far impazzire.
 Ora, ti prego, abbandonami. Demone infame, allontanati da me, non 
            mi rapire. Lasciami costruire la mia vita, vivere spensierato la mia 
            giovinezza senza tormentare i miei giorni, senza bruciare i miei anni. 
            Non posso imprigionare di ossessioni una piccola mente affamata di 
            tutto. Ma ogni attimo non può e non deve diventare un incubo….se 
            solo la mia mente fosse più reattiva.. la mia volontà 
            più forte. Non voglio più buttare il mio tempo. Non 
            voglio più sprecare le mie carte, fin troppo in regola. Spazza 
            lontano da me le inutili persecuzioni e fammi vivere.Mi sono estraniato 
            fino a non sentire più una parola. Ho vagato in territori proibiti 
            che turbano ancora i miei stati di veglia. Per te ero solo assonnato, 
            malinconico, distratto. Ero appeso a un filo di ragione. Come uno 
            stupido mi ero messo in testa di capire tutto e vivere ogni situazione 
            che mi ero costruito nell’immaginazione. Stavo per uscire fuori 
            da me stesso.Domani voglio rinascere, vivere in sintonia con il mondo 
            che mi circonda senza farmi troppe domande. Ne uscirò un uomo 
            più forte. Il vecchio uomo stava per essere ingoiato dai fantasmi, 
            ha assaporato e visto l’assurdità che realmente esiste. 
            Ma per vivere bisogna guardare senza vedere, sentire senza ascoltare, 
            far finta di capire tutto, non scavare oltre i limiti per non perdersi. 
            L'unica strada rumorosa appartiene alla dignitosa assenza, allo spigoloso 
            e fragoroso silenzio.
 Questo, era il 
            monologo che recitava un lungo ed esile prete fuggito sull'isola col 
            paravento di fare il missionario. A causa di un'epidemia che aveva 
            decimato la già esigua popolazione, ora viveva solo in una 
            terra solare e vergine preda di un grande sconforto per la morte dei 
            locali. Lui, un prete a metà strada tra un esploratore e un 
            ideologo, un filoso e un teologo, che non aveva mai avuto il coraggio 
            di fare una scelta di solitudine totale, ora era lì, appartato 
            con sè stesso.Scese la scalinata, costruita assieme agli indigeni, e si sedette 
            nell'ultimo gradino appena affiorante sul mare, quel giorno grigio 
            come la burrasca che stava per arrivare.
 Si sentiva come un cristo crocifisso in acqua che riemerge tra spuntoni 
            di solitudine.Ringraziò Dio di non averlo reso succube della 
            chiesa ufficiale. Poi, si guardo le nocche delle mani, erano sempre 
            più evidenti: secondo alcuni sciamani delle Ardegnas rivelano 
            la morte in un'arcaica premonizione.
 Il prete estrasse il foglio ingiallito, scritto a caratteri orientali. 
            Contemplò ancora per qualche istante lo specchio inquieto e 
            terribilmente rasserenante del mare.Tradusse le frasi del foglio.Erano 
            dei versi. Semplicemente dei versi. Unici e irripetibili nella loro 
            forma.
 Le prime gocce gli bagnarono dolcemente il viso. Si alzo in piedi, 
            nella sua figura lunga e scarna.
 “Anche Dio..anche Dio mi benedice” disse ad alta voce”benedice 
            me e queste parole”.
 Detto questo, un vento sottile si insidiò tra le sue parole, 
            i tuoni suonaro gravi e insolenti, i lampi venarono l'acqua e una 
            salmastra eternità pervase l'isola.
 Il lungo prete, come di fronte a una platea invisibile eppur presente 
            stagliò la mano in aria e recitò le parole scritte sul 
            foglio:
 Io non so più mio Dio
  Io non so più 
            mio Dio,
 come resistere
 all'uomo
 che incensa sé stesso,
 illudendosi con finti miraggi
 di essere un piccolo Dio.
 Io non so piùmio Dio,
 dove scovare
 gente che sa ascoltare.
 Io non so più,mio 
            Dio. |