24 DICEMBRE
di Vincenzo Pisanu

Il mio lavoro termina alle cinque. La mia giornata è quasi sempre uguale. Rientro a casa percorrendo la via Crispi e quasi sempre sosto al Bar Delizia, giusto il tempo per un cappuccino, un'abitudine che dura da tempo; mi lascia in bocca un gusto caldo e appagante ancora dolce quando arrivo a casa. Quel giorno comprai anche i panettoni, assieme a due bottiglie di spumante. Uscii. Il piede stava ancora sul scalino quando sentii lo stridore dei freni e l'urlo della donna. Immediatamente pensai a mia madre e corsi verso l'auto investitrice. Sentii una vampata di calore avvolgermi sino alla sommità del capo, il cuore mi batteva in gola. - Mi è venuto addosso in diagonale... - disse quasi a giustificarsi l'uomo alla guida, e di rimbalzo altre voci di passanti - ... Forse era stanco di vivere... - E' solo un cane, andiamo via. - Come coriandoli sull'acqua, d'improvviso affiorarono alla mia mente pensieri remoti che immaginavo perduti. Rovesciando zolle di dolore dai solchi riaperti, un vomere impietoso disseppelliva ricordi che il tempo e la vita avevano coperto. In un attimo mi rividi camminare con in mano i panettoni e le bottiglie. Mi diressi verso la piazza, ed erano le gambe a muoversi con passi affrettati, trascinandomi sino al muretto basso che delimitava il giardino con al centro la statua della Madonna Del Carmine. Quasi fosse una stazione del calvario, in quel punto preciso il busto si ribellò alle gambe piegandosi sino al contatto del basalto. Mi ritrovai seduto. - Cicciu!... Sembrava proprio lui. Lo stesso pelo rossiccio, e come lui bastardino, disteso su un fianco, sollevava leggermente la zampa posteriore come quando chiedeva carezze, ed io lo ripagavo coccolandogli il ventre con la punta del piede scalzo.

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Cicciu aveva pochi giorni di vita quando mi fu regalato dal pastore che era solito abbeverare il gregge lungo il Rio Thamis, il cui percorso, costeggiando l'aia e i chiusi di fichidindia, delimitava l'orto di casa mia. Sapendo che i miei non ne avrebbero gradito la presenza lo nascosi sotto il forno di mattoni crudi, adagiandolo sopra una vecchia giacca di fustagno e assicurandomi che non fuggisse, tramite una fascina di sterpi posta all'ingresso del forno stesso. Quindi attesi l'indomani. Accompagnati da malumori e cattive parole, i giorni passarono in fretta. Il latte che sottravo di nascosto, il "biberon" ricavato da un contagocce bucato, la stessa presenza del cane, furono problemi che richiesero impegno ma che infine si riuscì a superare. Col tempo, Cicciu venne accettato e successivamente anche coccolato, e crebbe. Con me crebbe l'amico. Con lo scorrazzare nei campi vicini, nelle aie, ricordo il bagaglio di sogni, unico mio bene, che solo a lui confidavo. Amico di un'infanzia piena d'asprezza, compagno nei giochi e nei momenti di sconforto, rappresentava tutto il mio mondo affettivo. Con lui dividevo i miei silenzi o sfogavo il rancore verso i compagni, dai quali spesso deriso, mi vendicavo come potevo. A lui era dato capirmi più di mio padre, del quale conoscevo poco, se non le rare lettere dal Belgio che col tempo smisero di arrivare. Più di mia madre, che anziché parlare sputava bestemmie e rancore. A Cicciu avevo insegnato tante cose, e "la vita" era solo nei chiusi di campagna, tra i boschi alle pendici delle montagne che circondavano il paese. Stanco delle liti coi miei coetanei e non potendo dialogare con gli adulti, imparai a parlare col cane. I discorsi erano fatti quasi unicamente di domande. - Perché zia Giuditta diceva che il Belgio era pieno di bagasse e che mio padre non sarebbe più tornato? - E se fosse stato vero? Ma allora non sarebbe stato meglio non essere mai partito? - E per fare il minatore, perché bisognava andare lì? Con questi pensieri in testa ultimai le elementari e allo stesso modo anche le medie. Nell'andare via, al dolore per le cose più care che lasciavo, si aggiunse quello ancora più grande per l'amico, il fratello, mentre il libro della vita mi apriva un capitolo nuovo.

Pagine disuguali con un'alternanza di suoni ora cupi ora sordi, mai gioiosi. Quel posto che non era una casa faceva ripensare alla mia casa, e quella gente che non era una famiglia, mi riportavano alla mia, che mai era stata tale. Alle domande che ponevo a qualche suora mi veniva risposto che le cose degli adulti a volte sono difficili da capire. Mia madre, nelle poche visite, diceva sempre - Studia e fai da bravo. Diceva che lì si stava bene e che si imparava tanto. E tanto imparai….. La fuga era il pensiero fisso e nelle fughe conobbi tutto, la roba degli altri, l'essere inseguito, braccato, ripreso, interrogato da quelli in divisa. Più tardi nel tempo, ancora un'altra casa, affacciata sul mare di Giorgino. Stramaledetta Cagliari, ripetevo. E maledetto il mondo e questo mare di merda di Giorgino, nella casa dalle finestre inferriate. Non fu facile. Laddove chi meno soccombeva alla violenza del più forte diventava uomo prima del tempo. Spesso il pensiero correva al giorno della fine, con un'alternanza di propositi tra il riprendere daccapo, dettato dal rancore, e il ricominciare una vita "normale" e nel modo migliore. Ma in quale modo? Ne conoscevo pochi. Il pensiero era un pendolo. La dura vita lì dentro e i discorsi degli altri non aiutavano certamente a capire, a valutare il meglio. Anche quando il portone si aprì e si richiuse cigolando alle spalle lasciandomi solo in strada, non c'era in me chiarezza di pensiero. In un dedalo di facili strade che inevitabilmente riportavano al buio appena lasciato, non mi fu facile percorrere quella giusta. L'incessante impietoso chiedere degli altri metteva a dura prova la volontà, nella ricerca di un lavoro onesto. Mi sentivo come marchiato, me lo sentivo in tutta la persona, come quando mi fecero premere i polpastrelli sul tampone inchiostrato e riprodurre le impronte digitali. Ora mi sembrava di premere l'anima sull'inchiostro, e nell'impronta avvertivo tutto il dolore contenuto in questa città a me sempre più ostile. Non avevo più dove andare, neppure in paese, né sapevo che fare.

Fui di nuovo tentato… D'improvviso, quando tutto sembrava perduto, finalmente un lavoro. Poco denaro, vitto e alloggio nel retrobottega, ma davanti a me piano piano si apriva un'alba nuova. Nel nuovo sole che spuntava cominciai a scorgere volti amici e dentro di me qualcosa che ancora non conoscevo. Scoprii Cagliari completamente diversa. La sentii che si apriva con affetto materno e che mi accoglieva. La percorsi dovunque sentendola anche mia. Un incontro fortuito ed un nuovo lavoro.

Un letto in una camera. Nella pensione fu quasi sentire la famiglia, nella famiglia, quel calore mai provato, che comunque lasciava ancora vuoti nascosti, immensi spazi di incertezza in mezzo a cui mi sentivo un pendolo, una medaglia strana da cogliere per il giusto verso nel vorticoso girare su sé stessa.

Fu la mano di lei, capace di fermare, di trattenere l'attimo del punto morto e tramutarlo in certezza. Ne fui felice, ma non fu facile… Non fu facile neppure perdonare, quando nel momento dell'emozione mio padre si riconobbe nella bambina, ed io a dire: - Questa è Chiara, mia moglie.

Com'era cambiata la gente e anche il resto…, anche il vecchio portone in legno aveva lasciato posto al ferro. Spariti il fico e il melograno, l'acciottolato era stato seppellito dal cemento e i nuovi muri del cortile, intonacati, non recavano più buchi entro cui andare a caccia di ragni. Nel cortile che riconobbi a fatica rimaneva l'antico forno di mattoni crudi, muto testimone della mia infanzia in quei luoghi, e grande fu l'emozione nell'avvicinarmi al cane accucciato sotto. Canuto, invecchiato, il tempo giocando impietoso anche con lui gli aveva risparmiato solo lo sguardo. Negli occhi di sempre gli pesava un velo leggero. Quasi apatico non mi riconobbe, non si mosse. Mi inchinai fissando il suo sguardo e lo chiamai per nome. - Cicciu! - Ravvivandosi come per aver sentito una voce remota, fu percorso da un fremito per tutto il corpo. Mosse la coda mugugnando e a modo suo mi espresse tutta la gioia che un cuore di cane può contenere e riuscire ad esprimere. Gli carezzai la testa scendendo fino al folto pelo, poggiai un ginocchio per terra quasi in adorazione pagana, lo strinsi forte e piansi.

Il giorno seguente non mi vergognai di piangere ancora. Cicciu morì la notte stessa. Lo trovammo accucciato, sembrava dormisse. Come se avesse tutto il tempo solamente per rivedermi. Quasi una tacita promessa. La bambina, venutami accanto, guardò prima me poi il cane. Mi venne più vicina e disse: - Poverino, era un cane molto buono, vero papà? Annuendo con la testa la guardai in silenzio, augurandole di poter incontrare nella vita e d'avere poi vicino un compagno, così come per me lo era stato Cicciu.


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Sentii una mano scuotermi la spalla e allo stesso tempo una voce. - Papà che fai? Cos'è successo?

Riprendendomi dal torpore misi a fuoco dapprima la mano coi libri, poi alzando lo sguardo, mia figlia.

- Papà ti senti male? Papa!…

- No, niente, è passato.

- Cosa ti è successo?

- Niente. Ho solo rivisto un amico che non vedevo da tanto, è tornato per dirmi Buon Natale.

- Prendi tu i panettoni, andiamo. Torniamo a casa.

 

COSTANTINO LONGU FRANCESCHINO SATTA POESIAS SARDAS CONTOS POESIE IN LINGUA ITALIANA

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