La Notizia//////////////////////////////////
//////////////////////////////////di Paolo Pulina

O====================================O

////////////////////////////

Al circolo sardo di Vigevano grande successo
del dibattito sulla fame nella cultura popolare

//////////////////////////////

Nel pomeriggio di domenica 12 dicembre, presso la sede sociale, il circolo sardo “S’Emigradu” di Vigevano, presieduto da Giovanni Podda, ha organizzato una tavola rotonda sul tema “Le raffigurazioni della fame nella cultura popolare: in Lombardia, in Lomellina, in Sardegna”. L’occasione del confronto interculturale tra le due regioni è stata offerta dalla ricerca di Salvatore Tola (studioso e pubblicista sassarese) su “Il cavaliere della fame. Mastru Juanne nella poesia e nelle tradizioni popolari sarde”.
Dopo i saluti del presidente Podda, il pavese prof. Angelo Stella, dell’Accademia della Crusca, ha informato sulla sua ricerca applicata ai dialetti lombardi (facendo ovviamente particolare riferimento al “Vocabolario milanese-italiano” di Francesco Cherubini) volta a trovare la presenza, anche gergale, della fame nel milanese: è venuta fuori “la sgaiosa” che tormenta quanto “la morosa”.
Ha anche rilevato che in italiano noi diciamo “ho fame”, “soffro la fame”: abbiamo quindi bisogno di un sintagma, mancando l'italiano di un verbo come “esurio” (che c'è in sardo). Quindi l'uomo è passivo di fronte alla fame, la subisce, come subisce la morte; ecco che i grandi tormenti dell'uomo, la guerra, la peste, la fame, vengono personificati: la signora Caterina dalla ranza, come “Mastru Juanne” (denominazione personificante riscontrabile in Sardegna e registrata anche dal Dizionario Etimologico Sardo del grande studioso tedesco Max Leopold Wagner). Il dotto excursus linguistico del prof. Stella, che è anche presidente del Centro nazionale di studi manzoniani, ha riguardato anche la prospettiva inedita con cui Manzoni tratta il tema della fame. Ha citato un’analisi di Michele Simoni: «Per la prima volta la fame è denunciata come un problema da affrontare e risolvere per la comunità umana che vive tra le pagine del romanzo. Viene ribaltato il concetto di fame tipico della commedia dell'arte, dove compariva come caratteristica peculiare (ma dai risvolti comici) dei poveri, degli sfortunati, dei villani, come dimostrano gli studi di Piero Camporesi ».
Marco Savini, profondo conoscitore della cultura popolare in Lomellina (una delle tre zone in cui è divisa geograficamente e storicamente la provincia di Pavia: le altre due sono Pavese e Oltrepò), nel successivo intervento è partito dalla considerazione che in questa zona non esiste una tradizione di leggende relative alla fame, anche se ovviamente il territorio la ha sofferta nei secoli scorsi.
Savini ha ricordato che la fame è richiamata in alcuni proverbi e modi di dire e nelle fiabe. La situazione iniziale è spesso quella dell’estrema miseria, che costringe una famiglia ad allontanare uno dei figli nella speranza che così si allenti la stretta opprimente della fame. Lo stesso lupo è sempre “famelico”. Nelle favole lomelline l’abbondanza è sempre temporanea, coincide con la festa, una situazione fortunata, un furto, ma non è mai la regola. La regola è la fame che rode le viscere del lupo, del mendicante, del contadino, persino del prete e spinge in qualche caso a un patto col diavolo, dispensatore di ogni bene.
Savini ha concluso la sua analisi sottolineando il fatto che l’abbondanza resta nel sogno finale quando talora il protagonista si ritrova a una bella festa, come un pranzo di nozze, e persino nelle formule conclusive delle narrazioni in cui per l’appunto il sogno di una gran mangiata si mescola con la paura dell’esclusione e l’incubo della fame con un effetto irresistibilmente comico: “i an fai una gran senna / un gran spatüs / e mi ca sera da dré da l’üs / ö ciapà ’na casulà antal müs / o che büsss” (hanno fatto una gran cena / una grande abbuffata / e io che ero che ero dietro l’uscio / ho preso una mestolata sul muso / oh che buco – e si spalanca la bocca).
Per quanto riguarda la Sardegna, nella sua ampia relazione Salvatore Tola ha precisato che “Mastru Juanne” è un personaggio partorito dalla fantasia dei poeti per rappresentare le incursioni della carestia e della fame, e tentare di sorridere sulle conseguenze che ne derivavano per tanta parte della popolazione. Difficile indicare il tempo di questa “invenzione”, ed è probabile che molti dei testi, concepiti in tempi di assoluta oralità, siano andati perduti. Non solo, ma a parte il poemetto prodotto a Tempio Pausania, La canzona di Mastru Juanni, pubblicato in volume solo nel 1982 da Salvatore M. Sechi, gli altri che si sono salvati non hanno ricevuto particolari attenzioni, né al tempo in cui furono concepiti né, in genere, dagli stessi studiosi delle tradizioni popolari. In più di un caso, rimasti a lungo inediti, sono stati riportati in fogli volanti, in raccolte a diffusione locale o recuperati in riviste.
Tola ha informato di aver individuato diciotto testi (di cui ha procurato notizie sugli autori e traduzione in italiano), collocati in un arco di tempo che va dagli inizi dell’Ottocento alla seconda metà del Novecento; e in un’area geografica che dalla parte settentrionale dell’isola raggiunge il Nuorese, ma non arriva al Campidano. Tola, dopo aver rievocato la storia della fame in Sardegna, ha analizzato le caratteristiche del personaggio “Mastru Juanne” come emergono dalle descrizioni lasciate dai poeti: le divertenti e divertite immagini inventate dai poeti hanno spesso strappato il sorriso ai numerosi presenti.
Nel dibattito sono intervenuti alcuni appassionati di ricerche relative alla cultura popolare della Lomellina: Luciano Travaglino, Enrico Ghiotto, Grazia Sampietro.
(20-12-2010)