La Notizia////////////
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Come gli scrittori sardi si sono rapportati al modello Alessandro Manzoni

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A Lecco, nel pomeriggio del 28 aprile, presso la sala “Don Giovanni Ticozzi” della Provincia, nel quadro de “Sa Die de sa Sardigna” organizzata dalla circoscrizione dei venti Circoli sardi della Lombardia, si è tenuto un confronto letterario tra Alessandro Manzoni e Grazia Deledda.
Il campione d’incassi Andrea Vitali (medico di base, nato nel 1956 a Bellano, in provincia di Lecco, tra i cinque finalisti del Premio Strega nel 2009) ha letto e commentato alcune pagine del romanzo “Cenere” (1904) della scrittrice nuorese, premio Nobel per la letteratura nel 1926; Gianni Marilotti (docente di storia e filosofia nei licei, nato nel 1953 a Cagliari, vincitore del Premio Calvino nel 2003 con il romanzo edito da Maestrale “La quattordicesima commensale”) ha proposto un ampio saggio storico-critico sull'autore de “I Promessi Sposi” e sulla sua produzione letteraria.
Il confronto è stato coordinato da Paolo Pulina, che ha introdotto la discussione con una rapidissima sintesi della relazione che qui di seguito si pubblica integralmente.

di Paolo Pulina

Ne “La Grande Enciclopedia della Sardegna” uscita nel 2007 in abbinamento al quotidiano di Sassari “La Nuova Sardegna” (e che consta di dieci ponderosi volumi più uno di aggiornamento) il nome della città di Lecco è richiamato una sola volta, a proposito di «Lanfredo Castelletti, archeologo (nato a Lecco nel 1942). Ha fatto parte del gruppo di specialisti che nel 1980 ha studiato il Neolitico sardo nella Grotta Rifugio presso Oliena e ne ha scritto in due articoli, I resti di legni carbonizzati e La grotta Rifugio di Oliena: caverna-ossario neolitica, “Rivista di Scienze preistoriche”, XXXV, 1-2, 1980».
Ho controllato anche le ricorrenze del nome di Alessandro Manzoni.
Viene citato come ispiratore, insieme ovviamente a Walter Scott, dei volonterosi compilatori dei romanzi storici di ambientazione sarda, ma non solo sarda, che nella seconda metà dell’Ottocento, pur non essendo di grande qualità letteraria, conobbero un notevole successo di pubblico in Sardegna (successo che arrise anche ai racconti storici coevi editi nel resto d’Italia).

Gli scrittori sardi di romanzi storici seguaci nel secondo Ottocento del modulo manzoniano

Gli autori più significativi sono: Antonio Bacaredda (Cagliari 1823-Napoli 1904), il quale, rifacendosi appunto allo Scott e al Manzoni, scrisse diversi drammi e alcuni romanzi storici accolti con grande favore dai lettori del tempo: può essere considerato l’antesignano degli scrittori sardi che si cimentarono in questi generi letterari, come prolungamento “creativo” della loro attività professionale, quasi sempre sviluppantesi nei campi dell’insegnamento, dell’amministrazione, della burocrazia, dell’avvocatura.
Tra questi i due fratelli Michele Uda (Cagliari 1830-Napoli 1898) e Felice Uda (Cagliari 1832-Roma 1900).
Il primo scrisse, tra l’altro, Lena degli Strozzi, dramma in 4 atti del 1849, uno dei suoi primi tentativi teatrali che ricalca la vicenda dei Promessi Sposi di Manzoni. Di lui ha detto lo storico Raimondo Bonu: «In arte fu manzoniano per la sobrietà delle tinte e la temperanza dei sentimenti. Facile a divagare dal tema con i molti e inopportuni intrecci avventurosi, rivelò spesso (e sono sue parole) “slegature abbastanza visibili a occhio nudo”».
Del secondo lo stesso Bonu ricorda che ad Agrigento, città dove per qualche anno insegnò storia al Liceo, «nel 1884 diede alle stampe un romanzo archeologico (Plautea d’Agrigento), con l’intento di fare rivivere la storia e la vita della libera città siciliana, quale poteva presentarsi circa ventidue secoli prima».
Dobbiamo poi citare Carlo Brundo (Cagliari 1834-1904), che a partire dal 1869 cominciò a pubblicare numerosi romanzi, tutti richiamantisi al modello manzoniano. Mandò alle stampe anche alcuni saggi di storia: cito solo quello del 1878 intitolato Il castello dell’Acquafredda. Scene storiche del secolo XIII.
Prima ho parlato di due fratelli scrittori di romanzi storici, adesso è il turno di due cugini primi: Gavino Cossu (Cossoine 1844-Sassari 1890) e Marcello Cossu (Bonorva 1845-fine sec. XIX).
Di quest’ultimo ho letto Ritedda di Barigau. Bozzetto ogliastrino (del 1885) su consiglio dell’amica scrittrice Lina Aresu, che ne ha procurato negli anni scorsi una riedizione commentata andata a ruba nelle zone (Lanusei e dintorni: “Barigau” è uno dei quartieri di Lanusei) in cui sono collocate le vicende di questo romanzo storico che è al tempo stesso un romanzo d’appendice.
E chiudiamo con il più grande di questi autori: Enrico Costa (Sassari 1841-1909), archivista, storico di Sassari per eccellenza ma anche fecondissimo poligrafo (letterato, romanziere, poeta, autore di bozzetti, di novelle, di libretti di teatro ma anche di approfonditi saggi storici).
Il più famoso romanzo storico di Enrico Costa è Il muto di Gallura, pubblicato nel 1885, best seller dell’epoca ma continuamente ristampato perché richiesto anche dai lettori di oggi. “Il muto di Gallura”, così era chiamato Bastiano Addis Tansu, uno dei più feroci protagonisti della terribile faida che dal 1849 al 1856 insanguinò il paese di Aggius, facendo oltre settanta vittime.
Dal libro traggo un brano, che certifica le conoscenze “manzoniane” di Enrico Costa, e che – se pensiamo alle motivazioni che hanno suggerito l’incontro di oggi – dovrebbe convincere Giuseppe Tiana, presidente del Circolo sardo “Amsicora” di Lecco, a sollecitare un gemellaggio tra Lecco e Aggius, ben noto comune gallurese: sia chiaro, non per analoga presenza e azione di spietati banditi, ma per una certa simile conformazione delle montagne che sovrastano le due località.
Scrive Enrico Costa:

«Il paese di Aggius è addossato ad una strana catena di montagne che sembrano create per difenderlo. Diresti che non siano gli uomini che abbiano fabbricato il villaggio a piedi di quella catena; ma piuttosto la natura che abbia costrutto quella barriera alle spalle di Aggius. Quei monti hanno forme bizzarre, e ti fanno pensare al famoso Resegone di Lecco, immortalato dal Manzoni. Essi ergono al cielo le creste nude, frastagliate, capricciose; e gli abitanti guardano con un certo orgoglio quelle punte taglienti e aguzze come il loro ingegno, come la loro lingua, come il loro coltello».

Fin qui gli scrittori di stampo, diremo, “manzoniano”. E gli studiosi sardi dell’arte del Manzoni?
Salvatore Satta (Sassari 1872 - prima metà sec. XX; da non confondersi con il giurista nuorese autore del capolavoro narrativo Il giorno del giudizio), insegnante, critico letterario, ha firmato uno studio dal titolo Azzeccagarbugli. Contributo alle fonti manzoniane (1904).
Agostino Saba (Serdiana, CA, 1888-Sassari 1962), religioso (arcivescovo di Sassari dal 1961 al 1962), storico della Chiesa, ha pubblicato nel 1933, nella rivista “Convivium”, il saggio Francesco Rivola e Alessandro Manzoni. (A Francesco Rivola si deve la Vita del cardinale Federigo Borromeo, citata da Manzoni nei Promessi Sposi: nei capitoli XIX [a proposito dell’Innominato] e XXXI [«Nella Vita di Federigo Borromeo, compilata da Francesco Rivola, trovo che il cardinal Federigo, appena si riseppero i primi casi di mal contagioso, prescrisse, con lettera pastorale a’ parrochi, tra le altre cose, che ammonissero più e più volte i popoli dell’importanza e dell’obbligo stretto di rivelare ogni simile accidente, e di consegnar le robe infette o sospette»]).
Salvatore Accardo (Bonorva, SS, 1912-Roma 2001), insegnante, ha scritto Il pensiero politico e il cattolicesimo democratico di Alessandro Manzoni, 1971; Giuseppe Capograssi e Alessandro Manzoni, 1992. [Giuseppe Capograssi (Sulmona, 21 marzo 1889-Roma, 23 aprile 1956) è stato un giurista e filosofo italiano che si è occupato principalmente di filosofia del diritto].


Grazia Deledda e le opere del Manzoni

Alessandro Francesco Tommaso Manzoni è nato a Milano il 7 marzo 1785 ed è morto il 22 maggio 1873.
Grazia Maria Cosima Damiana Deledda è nata a Nuoro il 27 settembre 1871.
Possiamo quindi parlare quasi di un ideale passaggio di testimone tra i due più importanti scrittori “nazionali” rispettivamente dell’Otto e del Novecento italiano.
Oltre quella di nascita è opportuno ricordare alcune altre date, e alcuni dati, della biografia di Grazia Deledda. Grazia apparteneva a una famiglia agiata, «un po’ paesana e un po’ borghese». Il padre Giovanni Antonio curava i suoi possedimenti ed era dedito al commercio; ma aveva anche una vera passione per la poesia estemporanea. La madre Francesca Cambosu, donna severissima, si occupava della casa e dei sette figli (cinque femmine e due maschi).
Grazia frequentò la scuola solo fino alla quarta elementare, facendosi comunque notare per le composizioni in italiano ricche di spunti di fantasia. Negli anni successivi le furono garantite solo in privato lezioni di italiano, latino e francese.
Grazia completò la sua iniziale formazione da autodidatta, leggendo voracemente le riviste femminili e tutti i libri che trovava nelle biblioteche di famiglia (anche quelli, come scriverà, «non adatti alla sua età e alla sua educazione»).
Il suo primo racconto, intitolato Sangue sardo, riuscì a pubblicarlo a 17 anni, nel 1888, nelle pagine di “Ultima Moda”, rivista popolare romana di Edoardo Perino, diretta da Epaminonda Provaglio; uscirono nello stesso anno Remigia Helder e il romanzo Memorie di Fernanda.
Ha scritto Dolores Turchi: «Nel periodo giovanile le sue letture erano quasi tutte di tipo feuilleton (Ponson du Terrail, Dumas padre, Lord Byron, Victor Hugo, Eugène Sue, Carolina Invernizio), secondo i gusti popolari del tempo e la sua fantasia aveva assorbito così bene quel tipo di letteratura da rifletterlo appieno nel suo primo racconto Sangue sardo che di sardo ha solo il titolo e la località in cui è ubicato: la spiaggia di Calagonone».
A partire dal 1889 le sue novelle appaiono regolarmente sui giornali “La Sardegna”, “L’Avvenire di Sardegna”, “Vita sarda” (fondata da Antonio Scano) e su altri periodici sardi.
Queste prove d’esordio sono accolte con favore dalle lettrici “continentali” e da quelle sarde (non dai suoi concittadini e concittadine nuoresi: nessuno è profeta in patria!) in quanto ricalcano modelli della narrativa d’appendice che allora avevano grande successo presso il pubblico femminile (ha scritto, giustappunto, Antonio Scano: «Nel racconto Il Castello di San Loor, uscito su “La Sardegna” del 19 aprile 1889, siamo di fronte a vicende veramente orripilanti, che le si agitavano fantasticamente intorno, forse per effetto della lettura dei romanzi allora in gran voga, di Anna Radcliffe e di Carolina Invernizio»).
Ecco come la Deledda nel racconto autobiografico La casa paterna, poi confluito nella raccolta di novelle Nell’azzurro (1890), riferisce sui modi in cui i suoi primi scritti narrativi vengono giudicati dalla comunità nuorese. (Proprio in questo racconto abbiamo una descrizione che è necessario qui citare perché rivela che a quella data la nostra scrittrice di Alessandro Manzoni aveva letto almeno I Promessi Sposi).

«Poiché la sera si avanza non mi fermo in qualche altra stanza della casa, ma corro alla camera di Giannina, la nostra balia, la nostra governante. Per caso, questa camera, come il vestibolo, è ancora ammobiliata, press’a poco come allorché abitata dalla nostra governante.
Giannina! Mi pare di vederla ancora, bianca, con gli occhi buoni, i capelli neri sostenuti da una aureola di spilloni d’argento – era lombarda – con un costume simile a quello che avevo veduto alla Lucia del Manzoni in un quadro che rappresentava una scena dei Promessi Sposi. Giammai avevamo potuto indurre Giannina a lasciare il suo costume per gli abiti signorili. Diceva:
– E allora che cosa mi distinguerà dalla mia padrona? […]
Avevo pubblicato i miei primi lavori, i miei primi bozzetti, a quindici anni: prima di veder il mio nome stampato, fulgidi sogni, larve dai mantelli di raso, incoronate di fiori, avevano popolato la mia mente: erano i fantasmi della Gloria! Figuratevi dunque il mio dolore, la mia rabbia, la mia delusione quando, nella mia città natia i miei primi lavori furono accolti in una scoraggiante guisa e mi valsero le risa, la maldicenza, la censura di tutti e specialmente delle donne. Fu un terribile colpo per me; piansi e mi pentii di questo passo, e confusa, scoraggiata, delusa, decisi di non scrivere mai più».

In realtà, dopo la raccolta di novelle Nell’azzurro (del 1890), la Deledda continuò a pubblicare: nel 1891, nell’ “Avvenire di Sardegna”, uscì, firmato con lo pseudonimo di Ilia di Sant’Ismael, il suo romanzo Stella d’Oriente (1891). Seguirono Amore regale (nello stesso anno 1891), Amori fatali e Fior di Sardegna nel 1892.
In Stella d’Oriente, la Deledda elenca gli autori dei libri sui quali si è formata prima dei vent’anni: Il profeta velato di Khorasan di Thomas Moore, Il corsaro di G. Byron, I Misteri del Popolo di Eugène Sue (“gran romanzo, glorioso o infame secondo i gusti, ma certo molto atto a commuovere l’anima poetica di un’ardente fanciulla”), le Novelle fantastiche di Iginio Ugo Tarchetti, Dente per Dente di Napoleone Corazzini, i romanzi di Victor Hugo («oh la penna, la penna di Victor Hugo per un’ora sola, per descrivere queste lotte interne, queste tempeste in un cranio...»).
L’accoglienza non favorevole ricevuta dai suoi romanzi la convinse finalmente a seguire i consigli di Antonio Scano. Per migliorare la conoscenza della lingua italiana, la Deledda accettò infatti di dedicarsi a molte, anche se disordinate, letture di autori classici italiani (Metastasio, Goldoni, Manzoni, Guerrazzi, Capuana, Verga, Fogazzaro, D'Annunzio e, in generale, gli autori della letteratura regionale di impostazione naturalistica) e stranieri, francesi (Balzac, Zola, Paul Bourget), svizzeri (Henri-Frédéric Amiel), scozzesi (Walter Scott) e russi (Gogol, Turgenev, Dostoevskij, Tolstoj) e scrittori sardi (tra questi Enrico Costa, il già richiamato autore del romanzo storico Il muto di Gallura, del 1885, che cita, come abbiamo visto, per le montagne di Aggius l’analogia con il Resegone di Lecco immortalato da Manzoni).
Sappiamo di queste determinazioni della Deledda da una sua lettera del 10 ottobre 1892 proprio ad Antonio Scano (che la pubblicò in Viaggio letterario in Sardegna, Foligno-Roma, Campitelli, 1932): «Ora non faccio nulla. Cioè, studio soltanto, e, secondo il suo consiglio, cerco di studiare la lingua, perché la fantasia non mi manca». Nella stessa missiva però la Deledda candidamente confessa: «E ho afferrato il Manzoni, il Boccaccio e il Tasso, e tanti altri classici che mi fanno sbadigliare e dormire!.... Dio mio! È inutile! Io non riuscirò mai ad avere il dono della buona lingua, ed è vano ogni sforzo della mia volontà. Scriverò sempre male, lo sento, perché l’abitudine di scrivere così come mi viene è radicata ormai nella mia povera penna».
Se leggiamo il romanzo Cenere (1904) vediamo che nella parte seconda la Deledda usa due evidenti stilemi di derivazione classica: il primo dalla Divina Commedia di Dante, il secondo dai Promessi Sposi del Manzoni.
Un brano con un incipit come «Era nell’ora che volge il desìo ai naviganti ed a quelli che stanno per salpare verso ignoti lidi» richiama chiaramente «Era già l'ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core» (dalla Divina Commedia, Purgatorio, Canto VIII, 1-2).

«Era nell’ora che volge il desìo ai naviganti ed a quelli che stanno per salpare verso ignoti lidi.
Anania è fra questi. Il treno lo trasporta verso il mare; cade una limpida sera d’autunno, grave di melanconia; i dentellati monti della Gallura sfumano nelle lontananze violacee, l'aria odora di brughiere; un ultimo paesetto appare, grigio e nero su uno sfondo di cielo rossastro. Anania guarda gli strani profili dei monti, il cielo colorato, le macchie, le roccie, e solo il timore di apparire ridicolo agli altri due viaggiatori, un prete e uno studente già suo compagno di scuola, gli impedisce di piangere.[…]
La sera cadeva; già qualche stella appariva “sovra i monti di Gallura” e qualche fuoco rosseggiava tra il verde-nero delle brughiere. Addio dunque, terra natìa, isola triste, antica madre amata ma non abbastanza perché una voce potente d’oltre mare non strappi i tuoi figli migliori dal tuo grembo, incitandoli a disertare, come aquilotti, il nido materno, la roccia solitaria».

La Deledda continua riferendo i pensieri di Anania.

«Addio, addio, terra d’esilio e di sogni! Anania rimase immobile, appoggiato al parapetto del piroscafo, finché l'ultima visione di Capo Figari e delle isolette, sorgenti azzurre dalle onde come nuvole pietrificate, svanirono tra i vapori dell'orizzonte; poi sedette sulla panchina, battendosi dispettosamente un pugno sulla fronte per ricacciar dentro le lagrime che gli velavano gli occhi; e rimase lì, pallido e sconvolto, intirizzito dalla brezza umida, finché vide la luna, rossa come un ferro rovente, calare in una lontananza sanguigna. Finalmente si ritirò, ma tardò ad assopirsi; gli pareva che il suo corpo s’allungasse e si restringesse incessantemente, e che una interminabile fila di carri passasse sopra il suo petto indolenzito; i più tristi ricordi della sua vita gli tornarono in mente: gli sembrava di udire, nello scroscio delle acque frante dal piroscafo, il rumore del vento sopra la casetta della vedova, a Fonni... Oh, come, come la vita era triste, inutile e vana! Che cosa era la vita? Perché vivere? ».

Questi pensieri non possono non farci venire in mente quelli accorati di Lucia (capitolo VIII dei Promessi Sposi) mentre la barca che trasporta lei – fuggitiva dai luoghi natii, insieme con Agnese e Renzo, per sottrarsi alle grinfie dei “bravi” di don Rodrigo – andava avvicinandosi alla riva destra dell'Adda:

«Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! […]
Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d'un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa, dove l’animo tornò tante volte sereno, cantando le lodi del Signore; dov'era promesso, preparato un rito; dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemente benedetto, e l'amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! ».

Sui Promessi Sposi del Manzoni la Deledda ritornò nel 1917 per un compito particolare: in quell’anno, infatti, accettò di tradurre in sardo di Nuoro la narrazione di fra Galdino sul “miracolo delle noci” per il volumetto, commissionato da Paravia a Ciro Trabalza, che uscì col titolo Dal dialetto alla lingua. Nuova grammatica italiana per la IV, V e VI elementare con XVIII versioni in dialetto d’un brano dei “Promessi Sposi”.
Tutte queste traduzioni sono state ripubblicate dal prof. Angelo Stella dell’Università di Pavia (oggi è presidente del Centro nazionale di studi manzoniani, che ha sede a Milano) in coda al saggio “Il ‘miracolo delle noci’ e la sapienza dei dialetti” nel volume I colori della letteratura nella Lombardia postunitaria: per Ettore Mazzali, atti del Convegno tenuto a Godiasco-Rivanazzano, PV, 17-18 aprile 1997 (Varzi, PV, Guardamagna, 1999).

Per Attilio Momigliano come Manzoni solo la Deledda

Massimo Pittau ha scritto: «Facendo riferimento ad Attilio Momigliano ed al suo insegnamento nel Ginnasio di Nùoro negli anni Venti, mi sembra di poter affermare che ne derivò un certa parte di fortuna per la nostra Grazia Deledda, dato che in pratica egli risultò essere stato l’unico critico letterario che ne abbia formulato un giudizio fondamentalmente buono e soprattutto privo di riserve. E dico di stupirmi parecchio per il fatto che i recenti critici e commentatori della Deledda, soprattutto quelli sardi, non abbiano mai fatto riferimento al giudizio che il Momigliano aveva a suo tempo formulato sull’opera della Deledda. A meno che non lo abbiano mai conosciuto....».
Nella sua notevole e fortunata Storia della letteratura italiana, Momigliano, a proposito di Elias Portolu, afferma: «In questa storia di un incesto non c’è nulla di immorale: nemmeno nel racconto del primo peccato, che è fatto con una spontaneità, una forza sintetica, una purezza da poeta. Il motivo del libro è la rappresentazione della coscienza dei due amanti, e soprattutto di Elias, in cui si agitano continuamente confusi la tentazione, il terrore del peccato, il desiderio del bene, l’abbandono al male. La sua forza è nella misura con cui questi sentimenti sono fusi, nella verità con cui essi informano le vicende semplici del racconto, nella lucida e dolorosa coscienza con cui la scrittrice segue questa battaglia morale. Forse è questo il libro di più alta e insieme di più solida moralità che sia stato scritto in Italia dopo I Promessi Sposi; è quello che rispecchia meglio la severa e religiosa intelligenza della vita che ha la Deledda».
Il grande critico letterario conclude la sua ampia analisi delle opere deleddiane con queste inequivocabili parole di apprezzamento: «Nessuno, dopo il Manzoni, ha arricchito e approfondito come lei, in una vera opera d'arte, il nostro senso della vita».

Una curiosità storica finale

Il poeta vicentino Giacomo Zanella nel 1879 ha ricordato che il Nou Dizionariu universali sardu-italianu (1834) di Vincenzo Raimondo Porru (Villanovafranca, VS, 1773-Cagliari 1836) «era nello scrittoio di Alessandro Manzoni quando morì, e ancora vi si conserva».

(02-05-2012)