DA: “QUADRETTI DI UN TEMPO”

 

In villeggiatura
di Rita Sanna

 


Ogni anno, in agosto, andavamo in villeggiatura in un piccolo borgo dove mia madre possedeva una casetta con cucina, due camere e col gabinetto fuori, in un angolo del cortiletto che si affacciava ad una lunga stradina costeggiata dalle vigne dei ricchi proprietari terrieri. Partivamo dalla città con un camioncino stracarico di roba, dai materassi alla caffettiera, per raggiungere quel villaggetto di poche case disposte a cerchio sulla piazzetta di terra rossa sottile e setosa come la cipria delle vecchie signore.
Entrava dappertutto quella polvere, in ogni angolo della casa, nelle lenzuola, nei vestiti, tra i capelli e tra le dita dei nostri piedi di ragazzetti turbolenti soprattutto quando, nelle notti calde, tentavamo di imitare il ritmo cadenzato delle coppie che, impettite, ballavano al suono della fisarmonica.
“Andate via da qui, ragazzini!” ci dicevano.
Io, mi ritiravo subito in buon ordine, ma i miei fratelli, sempre in coppia tra loro, continuavano, imperterriti, a pestare il suolo polveroso indifferenti alle proteste degli adulti.
Andavamo a dormire sempre a sera tarda e la mattina successiva era veramente un sacrificio abbondare il sonno. Così mia madre, dopo aver più volte insistito perché ci alzassimo, spalancava gli sportelli della finestra, ma noi, nonostante il sole già cocente ci picchiasse addosso, avvolti come mummie dalle lenzuola, continuavamo il nostro sonno che si faceva più profondo e più gustoso.
Una di quelle mattine, di buonora, fui svegliata dal rumore di insistenti picconate che provenivano da fuori.
Incuriosita, mi alzai dal letto e attraverso gli sportelli socchiusi vidi tre uomini forzuti collocare dentro una profonda buca,al centro della piazzetta, un lungo palo,alto forse più di tre metri.
Era l’albero della cuccagna!
Spesso guardavo, quasi ammaliata, l’alta cima, sulla quale era fissata una ruota di bicicletta. Ai raggi di questa, il giorno della festa di S.Agostino,erano appese galline vive ,salsicce,forme di formaggio,bottiglie di vino,persino un paio di scarpe nuove.
Non eravamo noi di certo,ragazzini di città, a scalare la vetta di quel fusto d’albero altissimo e spalmato di grasso d’animale,anche se mio fratello aveva tentato più volte. Così tornava a casa con i pantaloni strappati e unti, facendo disperare mia madre che avrebbe dovuto aggiustarli e lavarli con quella poca acqua che si andava a prendere con le brocche e con le damigiane nella vicina fontana dove si abbeveravano anche i buoi.
Erano molti, in quel torrido 28 agosto, quelli che si avvicendavano, tra applausi e fischi, a tentare di scalare il palo per portar via, con uno strappo veloce, il paio di scarpe nuove, il premio più ambito. Erano perlopiù figli dei pastori e di poveri contadini, abituati a salire sugli alti alberi, sui pali della luce, sui tetti delle case.
Io tifavo per Gigino, piccolo e magro.
Lo seguivo a naso in su mentre si guadagnava qualche centimetro di palo imbrattandolo con la terra che toglieva a manciate dalle tasche dei suoi pantaloni corti.
Dopo aver conquistato quasi metà altezza, il poveretto, esausto, scivolava giù velocemente, madido di sudore e con l’interno delle cosce sanguinanti.
Delusa, mi allontanavo da quella gara che mi sembrava crudele.
Riflessiva e romantica già da adolescente, consideravo magici i momenti della sera,quando la luna illuminava tutta la borgata, i vigneti, gli orti e i nostri volti.
Tutti insieme,maschietti e femminucce,invadevamo lo“stradone” che conduceva ai paesi vicini,mentre gli adulti, seduti all’aperto sulle panchine di pietra grezza o sugli scanni impagliati, collocati a semicerchio di fronte alla porta dell’abitazione, parlavano tra di loro e godevano del fresco della sera.
La grande luna e il ritmo dei grilli canterini mi rendevano sempre malinconica.
Mi riusciva difficile unirmi agli schiamazzi e ai canti stonati dei miei fratelli e dei miei compagni.
Preferivo quella luna che già m’ispirava qualche acerbo sentimento d’amore.
Mi sorprendevo, con vergogna,a guardare i riccioli bruni e gli occhi chiari di Riccardo,un ragazzino che, a differenza di noi tutti, viveva in una villetta coperta da tante rose rampicanti,situata su di altura poco distante dal borgo.
Lui non era come gli altri,sguaiati e chiassosi. A me sembrava un personaggio delle fiabe che avevo letto da bambina,un piccolo principe, sempre pulito,educato e ben vestito,che scendeva la sera dal suo “castello” per unirsi a noi.
Era socievole, ma non cantava e non si univa agli altri nelle gare tra chi sapeva raccontare le barzellette a doppio senso. A differenza degli altri, evitava di entrare nelle vigne a “vendemmiare” l’uva ancora verde o a cogliere la frutta acerba. Neanche io entravo nelle vigne perché, come diceva mia madre, ero “una drolla” e non riuscivo a scavalcare i muretti a secco con l’agilità dei miei fratelli.
Ricordo ancora quella lontanissima sera in cui Riccardo, piegando a sé un grosso ramo che sporgeva sulla strada, riuscì a cogliere una pera.
“Tieni, questa è matura!” mi disse
Lo ringraziai imbarazzata e la mangiai subito com’era, aspra e dura.
Era stata la luce della luna a farla apparire matura. La mattina Riccardo non si univa mai alla nostra “cricca”, sempre presa da un’attrazione particolare per gli asinelli che, legati saldamente con le funi agli anelli di ferro piantati saldamente al muro, apparivano mansueti ed immobili, fatta eccezione per le orecchie, in continuo movimento per scacciare le mosche moleste.
Non era facile sciogliere quei saldi nodi, ma quando qualcuno ci riusciva, saltava in groppa all’asino che, più furbo che dispettoso, lo conduceva rasente ai muri o alle siepi di rovo e di fichi d’india. Così, chi tentava di fare il valente cavallerizzo, spesso tornava a piedi con lunghe spine conficcate dappertutto, mentre l’asino col muso sollevato sembrava guardare con soddisfazione lo sconfitto. Io, che non sapevo neanche scavalcare un muretto a secco, di certo non potevo azzardare a fare l’amazzone!
Seduta ai bordi della cunetta, mentre aspettavo di rendermi utile a cavare le spine dalle mani e dalle gambe del malcapitato, rivolgevo spesso lo sguardo verso il “castello” di Riccardo.
“Perchè sta chiuso là dentro tutta la mattina?” mi chiedevo Avevo deciso di domandarglielo se fosse sceso la sera a scorrazzare lungo lo stradone con noi.
La sera non lo vidi, ma la mattina successiva si presentò tutto lindo nella piazzetta, procurando il rossore nella mia faccia.
“Sono venuto a salutarvi perché parto in montagna col gruppo dei boy-scout!
Io questo gruppo non l’avevo mai sentito nominare, non sapevo proprio chi fossero questi boy-scout! Così preferii non fare domande e me la cavai con un “Beato te!” Visibilmente dispiaciuta, gli allungai la mano a distanza per pudore, mentre gli altri, indifferenti, con un freddo “ciao”avevano continuato la partita a carte, a “rubamazzetto”.
Da quel giorno mi sentii ancora più sola.
Non mi piaceva unirmi agli altri che andavano a rubare le melacotogne, a fare gli equilibristi sul tetto convesso del lungo acquedotto nella zona dove le donne andavano per lavare i panni, e ancora meno mi piaceva andare a cacciare le timide lucertole, a colpire i passeri e le rondini con la fionda o a giocare a “lunamonta”.
Nell’attesa che il tempo della villeggiatura passasse veloce, trascorrevo le mie lunghe giornate con gli adulti.
“Sei la mia ombra! Perchè non vai a giocare con gli altri?” mi diceva mia madre.
“Perché no!” le rispondevo, secca.
Spesso, la notte, mi chiedevo che cosa volesse dire mia madre con la parola “ombra”
Non glielo chiesi mai, nonostante avesse continuato a ripetermi la stessa frase quando, ormai più che adolescente, le stavo accanto.
Mia madre non c’è più. Ora è lei la mia “ombra”

 

COSTANTINO LONGU FRANCESCHINO SATTA POESIAS SARDAS CONTOS POESIE IN LINGUA ITALIANA