Il tesoro delle janas
di Pietrino Monni

 

 

Marco aveva sentito parlare delle janas fin da piccolo, quando suo padre gli raccontava delle fiabe per farlo addormentare. Man mano che cresceva, aveva imparato a riconoscere il vero dal falso, il mondo immaginario delle fiabe dalla realtà.
Altre volte gli era capitato di leggere, di vedere film al cinema e alla televisione, di ascoltare delle storie che avevano dell’incredibile, ma lui le guardava sempre con spirito critico. Prendeva in giro il fratello e la sorella, quando commentavano avvistamenti di UFO o quando descrivevano delle scoperte, non ancora comprovate da fatti concreti. Lui riusciva a zittire sempre i fratelli o per lo meno a far nascere in loro il dubbio. Marco non aveva paura di niente e di nessuno, neanche quando andava da solo in campagna per raccogliere funghi o asparagi, o semplicemente per fare una passeggiata, come quel giorno. Era un bel pomeriggio d’estate e per cercare un po’ si sollievo al caldo intenso della giornata, aveva deciso di fare un’escursione al monte Ortobene. Giunto a metà strada, là dove le piante delle querce sono così alte e cosi fitte, che sembrano nascondere il cielo, scorse una sorgente da dove sgorgava dalla roccia. Era stato altre volte in quel posto, ma non aveva mai visto alberi così fitti e
così alti e tantomeno una sorgente d’acqua. Siccome era molto assetato si avvicinò senza indugiare. Si rinfrescò il viso e poi iniziò a bere con il palmo della mano. Una volta che ebbe finito di bere, si bagnò un po’ i capelli e stava per riprendere il cammino, quando sentì improvvisamente un fruscio dietro di lui. Si girò di scatto, pensando a un cinghiale o a un cane randagio, che stesse per assalirlo, ma non vide nessuno. Scrutò con attenzione il fogliame, trattenendo il respiro, per cercare di capire la provenienza del fruscio e finalmente individuò una figura in mezzo a una macchia di rovi e di lentisco. Anche se intimorito cercò di avvicinarsi, perché la curiosità era troppo grande: poteva essere un cinghialetto, un coniglio, forse una lepre, rimasti imprigionati in mezzo ai rovi. E poi la vide! Quale fu la sua meraviglia! Non era un animale! Non era neanche un essere umano! O almeno non sembrava tale. Questo essere aveva dimensioni molto ridotte, poteva essere alta trenta, quaranta centimetri.
aveva una pelle bianchissima, di sicuro usciva solo di notte o al tramonto, come se il sole potesse nuocere alla sua salute. Quello che lo colpì maggiormente erano i suoi capelli: lunghissimi e neri, che scendevano fino a terra e nascondevano in qualche modo la sua nudità. Marco riuscì a capire che era un essere femminile, perché si
intravedevano tra i capelli due seni afflosciati, come quelli di una vecchia ed erano proprio i capelli la causa della sua prigionia, poiché erano rimasti impigliati tra i rovi e non riusciva in nessun modo a districare i nodi e a liberarsi. Marco aveva capito che la figura fosse una jana, ma non riusciva a spiegarselo con razionalità, era tutto il contrario di quello che aveva sempre sostenuto. Aveva letto e sentito tante storie di janas, fate dei boschi che, secondo il mito, nel periodo nuragico abitassero nelle casette scavate nella roccia. In quel tempo erano generose verso gli uomini, con il loro ingegno li aiutavano perfino nei lavori più pesanti, come nella costruzione dei nuraghi, ma la
loro malvagità e il desiderio di impossessarsi degli immensi tesori delle janas, nascosti chissà dove, le costrinsero a nascondersi nei posti più remoti e a uscire solo di notte, al chiaro di luna. Marco e la jana si guardarono a lungo, senza parlare, come se l’uno dovesse capire quali erano le intenzioni dell’altro, poi Marco decise di fare il primo passo. Si avvicinò piano piano, per non spaventare la jana e sorridendole incominciò a liberare le ciocche dai capelli, impigliate tra i rovi. L’essere lo lasciò fare, aveva capito che Marco non aveva brutte intenzioni e non cercò neanche di nascondere le sue nudità. Una volta libera, uscì dalle frasche e a balzelli gli si avvicinò, lo prese per una mano e solo allora Marco si accorse che la jana aveva delle unghie lunghissime. Lo condusse attraverso la boscaglia fino a un cumulo di rocce e lo costrinse a scalare, girandosi ogni tanto per vedere Marco la seguiva. Arrivati quasi alla fine dell’ammasso di rocce, la jana si fermò e gli fece cenno di entrare in un cunicolo di forma quadrata, quella che sembrava essere la porta della sua casa. All’interno non c’erano arredi, vestiti, cibarie, niente di niente, come se per vivere trovasse il giusto necessario in mezzo al bosco. A centro della stanza c’era un telaio che si muoveva in continuazione, ma quello che tesseva non era lana, erano fili sottilissimi d’oro. Era quello il famoso tesoro delle janas. La vecchia si avvicinò al telaio, si sedette e incominciò a tessere. Il telaio tesseva fili d’oro in continuazione, come se la matassa fosse inesauribile e in pochissimo tempo completò una maglia, fatta completamente di fili d’oro. Poi la jana si avvicinò e la consegnò a Marco. Era il ringraziamento per l’aiuto che Marco le aveva fornito qualche ora prima? Marco fece un cenno di ringraziamento e uscì dalla casetta inchinandosi all’uscita e poi senza girarsi iniziò la discesa verso valle. La maglia lo faceva sentire leggero, come se i suoi piedi non toccassero il terreno, ma lievitassero sopra i sassi e l’erba. Non sentiva la stanchezza, anzi la maglia d’oro gli dava una sensazione di fresco. In poco tempo raggiunse il paese e la casa e subito cercò il fratello e la sorella per raccontare l’incontro con la jana. Lo avrebbero creduto o anche loro lo avrebbero preso in giro, come aveva fatto lui tante volte, ma lui aveva il dono della jana da mostrare. Lui raccontò l’incontro con tutti i particolari, suscitando la curiosità e l’attenzione dei fratelli, ma quando giunse alla fine del racconto e si spogliò per mostrare la maglia d’oro, si accorse che era svanita, come se non potesse essere vista da estranei. La jana aveva fatto in modo che il suo segreto non fosse mai svelato e Marco aveva infranto questo segreto. Altre volte gli capitò di andare al monte, da solo o in compagnia e quando cercò di rintracciare la domus de janas, la trovò sempre vuota, il telaio non c’era più e neanche la sua padrona.

 

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