Il sacrificio di Noddule
di Pietrino Monni

 

 


Giunsi alla fonte di Noddule che il sole era già alto. Il toro stava lì già pronto, legato, era sdraiato sopra rami di mirto e rimaneva tranquillo. La folla guardò ammutolita il mio arrivo, avevano capito tutti che ero io quello che aspettavano. Senza indugi scesi alcuni gradini e lavai le mie mani alla fonte: era fresca e odorava di menta. Salii lentamente, perché nonostante il gran caldo e la siccità dell’annata, i gradini erano ancora scivolosi e una folta lanuggine di colore verdastro ricopriva tutta la cavità del pozzo. Arrivato all’uscita, tutti gli astanti si avvicinarono, come per un segnale convenuto. Tolsi il coltello dal fodero di pelle di capra che tenevo nella cintola, datomi da mio padre come regalo per il mio quindicesimo anno di età: era un coltello di bronzo, molto affilato e con il manico di corno. Cinsi la benda sul capo e mi avvicinai all’animale, gli accarezzai il collo, come per tranquillizzarlo, in realtà cercavo la giugulare per dargli una morte veloce, sollevai al cielo la lama e con decisione sferrai un solo colpo e decisi il suo destino. Un rivolo scorreva fumante e andò a bagnare l’erba secca bruciata dal sole. Un uomo coperto con una pelle di montone raccolse il sangue con un corno e ne bevve un sorso, poi lo fece passare di mano in mano. Intanto abili mani squarciarono il petto del toro, ne tolsero il fegato e ne distribuirono un pezzo a tutti i presenti, i quali lo mangiarono in religioso silenzio, poi bruciarono le interiora sopra una pira già predisposta allo scopo, per propiziarsi il favore degli dei.
Il cielo diventò scuro di colpo e una pioggia calda e violenta bagnò l’arida terra, bruciata dalla siccità e vomitò nuvole di fumo che salirono al cielo, mischiate al fumo del fuoco, che ormai si era spento quasi del tutto. Il rito era finito, il sacrificio era stato gradito, lo scopo raggiunto. Lasciai la fonte ed entrai nel nuraghe poco distante.
La pioggia si era trasformata in un temporale e in breve tempo, nel canalone vicino, iniziò a scorrere un vero torrente. Il nuraghe non era molto grande, poteva essere alto si e no venti braccia, ma aveva una grossa imboccatura, dalla quale poteva entrare un uomo senza chinarsi. All’interno c’erano dei sedili di pietra, lungo tutta la circonferenza della costruzione che poteva avere un diametro di dieci passi. Conoscevo quel nuraghe da quando ero bambino e mio padre ogni tanto mi portava nei boschi di Noddule per cacciare caprioli. Mi diceva che anche lui aveva conosciuto quella costruzione da quando era piccolo e mio nonno lo accompagnava a prendere l’acqua alla fonte, lì vicino, quando nel villaggio non ce n’era. Una volta gli chiesi a cosa mai potessero servire quelle possenti costruzioni di pietra, che potevano contenere all’interno anche la più grande quercia di Erthola. Rimase un po’ pensieroso, come se anche lui volesse darsi una risposta, poi mi guardò e mi disse che anticamente erano delle torri di avvistamento, nel caso arrivassero i nemici provenienti dalla pianura, ma che ora venivano utilizzati come riparo dalle intemperie, quando si era lontani dal villaggio. Gli chiesi anche come mai all’interno ci fossero i sedili di pietra, mi rispose prontamente dicendo che servivano per le riunioni dei capitribù, quando dovevano stabilire alleanze con i villaggi vicini o quando dovevano stabilire i matrimoni. Rimasi dentro il nuraghe per più di un’ora e quando uscii all’aperto il temporale era scomparso. Il cielo però era ancora carico di nubi e la valle di Noddule aveva acquisito un aspetto sinistro, la luce era scomparsa del tutto, gli alberi sembravano delle sagome scure, che emergevano dalla nebbia che ora risaliva dalla terra. Fuori ormai non c’era più nessuno, gli uomini e colui che aveva la giacca di montone erano tutti scomparsi portandosi dietro il toro sopra un rudimentale carro trainato da buoi. Di sicuro si erano diretti verso Erthola, dove era il loro villaggio e dove erano attesi dalle loro donne, che aspettavano ansiose il loro ritorno, per macellare il toro e festeggiare.
L’uomo ricoperto con la pelle di montone era il loro capotribù: si chiamava Massan. Il villaggio di Erthola era composto da una trentina di capanne in pietra, ricoperte da rami di ginepro e frasche; potevano contenere due adulti e due o tre bambini. Le capanne servivano soltanto come riparo per la notte durante la stagione invernale, gli
uomini adulti preferivano dormire all’aperto nelle notti d’estate e godere il fresco sotto gli alberi, mentre le donne con i piccoli stavano dentro, al riparo da eventuali pericoli.
Pericoli già, anche allora c’erano tanti pericoli, non perché i boschi fossero infestati da serpenti velenosi o da animali feroci, bensì da animali che camminavano in forma eretta e che si chiamavano uomini, uomini che venivano dalla pianura, uomini feroci, bestiali, che non conoscevano alcuna forma di pietà verso i loro nemici, ne sapevano qualcosa gli abitanti del villaggio di Noddule. Noddule distava circa due ore di cavallo da Erthola. Era un villaggio molto più grande, popolato da una cinquantina di uomini nel pieno vigore delle loro forze e da una ventina di giovani smaniosi di farsi notare dalle ragazze dei villaggi vicini, senza contare le donne e i bambini. I giovani sapevano maneggiare molto bene l’arco e la fionda e col tempo avevano acquisito un’ottima mira, tanto che potevano abbattere un cervo o una lepre da una trentina di passi o centrare con le frecce un uccello in volo. Erano anche degli abilissimi ladri di cavalli, che andavano a rubare agli abitanti della pianura, vicino al mare. Le spade e i pugnali, forgiati a Ila Ila, un villaggio al limite della foresta, erano invece esclusivamente monopolio degli adulti, solo in alcuni casi potevano accedere al loro uso. Queste armi venivano utilizzate soltanto in determinate occasioni, come quando bisognava difendersi dagli attacchi dei villaggi più lontani, oppure nei grandi raduni, dove gli uomini più valorosi erano convocati con i loro figli più grandi, nel caso dovessero fronteggiare dei nemici numerosi, come quelli delle grandi pianure o addirittura quelli che qualche rara volta provenivano dal mare e si addentravano nell’interno dell’isola. Ora a Noddule non c’era più nessuno, il villaggio era stato distrutto e l’unico abitante sopravvissuto ero io, il guardiano della fonte sacra, il sacerdote di Noddule. Gli abitatori delle capanne erano stati sterminati e le donne portate via come schiave, nessuno era uscito incolume da quel massacro, a parte io.
Avvenne una notte d’inverno, la neve scendeva abbondante nella vallata di Noddule e un silenzio irreale sovrastava tutta la zona. Una cinquantina di uomini della pianura, venuti per riprendersi i cavalli rubati, si erano avvicinati al villaggio, senza far rumore, cercando di attutire il rumore degli stivali di pelle, che calpestavano la neve già alta. Gli abitanti del villaggio si erano rintanati dentro le loro capanne e si erano avvolti nelle loro pelli di pecora, per trovare un po’ di refrigerio dal grande freddo. I bambini più piccoli erano avvinghiati al collo delle loro madri e sembrava che nessuna cosa al mondo avrebbe potuto staccarli da quel focolare umano. Gli uomini stanchi dalla lunga giornata di caccia al cinghiale erano stremati dalla stanchezza e si erano subito appisolati alle prime ombre della sera, dopo un breve pasto frugale.
Arrivata la notte erano scesi i primi fiocchi di neve, che dovevano diventare una vera e propria tormenta nel giro di qualche ora. In breve, tutta Noddule dormiva sepolta da una colte candida e nessuno avrebbe potuto presagire cosa sarebbe accaduto nel cuore della notte. I giovani erano stati i primi ad addormentarsi, ansiosi di svegliarsi all’alba per ammirare il frutto della loro bardana, compiuta il pomeriggio nella pianura, vicino al mare. I giovani del villaggio, con la scusa di andare a caccia, erano scesi fino alla pianura ed erano riusciti a razziare un branco di venti cavalli, che avevano rinchiuso in un recinto, vicino al nuraghe. Io non ero andato con loro, con grande dispiacere di mio padre; mi ero fermato a metà strada, avevo preferito andare in un villaggio vicino a Nunnale, per vedere una ragazza dai lunghi capelli neri e lucenti, che era stata adottata da un vecchio del villaggio. Avevo accettato il suo invito ed ero rimasto a cena da loro, poi visto il peggioramento del tempo, il vecchio mi aveva pregato di rimanere anche a dormire. L’ospitalità era sacra in tutto il territorio di Orione e Nurchis era un grande amico di mio padre, al quale era rimasto sempre legato, da quando gli aveva salvato la vita, una volta che stava annegando nel fiume, che scorreva impetuoso sotto la vallata di Nunnale. Quando l’indomani ritornai a Noddule, lo spettacolo che si presentò davanti ai miei occhi era così impressionante che rimasi impietrito, un brivido mi correva lungo tutto il corpo e m’impediva di avanzare. Non mi ricordo per quanto tempo stetti lì fermo, sempre nella stessa posizione, non mi sentivo più i piedi, stavo congelando, poi qualcosa scattò nel mio cervello, l’istinto di sopravvivenza prevalse. Mi guardai intorno per vedere se c’erano dei movimenti o se qualcuno doveva essere ancora soccorso e ascoltai con attenzione, sperando di udire qualche gemito, ma invano. C’era soltanto un silenzio così assurdo che mi ronzavano le orecchie. C’erano macchie di sangue dappertutto, che la neve aveva ingrandito come per rendere ancora più agghiacciante la scena e custodirle fino al disgelo: era il sangue dei giovani e di qualche anziano, che in qualche modo erano usciti dalle capanne per difendersi dall’attacco. Nonostante il loro coraggio e il loro valore, erano stati subito sopraffatti, non tanto dal numero dei nemici, ma soprattutto dalla sorpresa. All’interno delle capanne stavano gli uomini, che non avevano avuto neanche il tempo di accorgersi cosa stesse succedendo e di prendere le loro armi per potersi difendere. Non erano stati risparmiati neanche i bambini, mentre le loro madri erano state portate via con violenza, soltanto una era rimasta all’ingresso della capanna, colpita a morte nel tentativo di difendere la propria libertà…era mia madre. All’interno della capanna giaceva anche mio padre, non aveva avuto neanche il tempo di svegliarsi, era stato colpito a morte da un colpo di mazza che gli aveva fracassato il cranio. Anche nelle altre capanne c’erano solo scene raccapriccianti, uomini sgozzati o con la testa fracassata giacevano accanto ai loro figli, morti nel sonno. L’indomani, tutti gli uomini validi dei villaggi vicini erano giunti a Noddule per dare una degna sepoltura ai caduti e per decidere come comportarsi con questi nuovi nemici. Io, da quel tremendo giorno, non ho più abbandonato il villaggio, come se il mio compito fosse quello di rimanere per proteggere i morti da nuove incursioni, visto che quella notte non ero rimasto a combattere e morire con loro. Per tutti ero ormai il guardiano del villaggio, il sacerdote di Noddule. Il mio compito era controllare la fonte sacra, in modo che gli animali non potessero avvicinarsi per bere e inquinare il pozzo. Ogni tanto, quando l’acqua era molto abbondante, riempivo dei grandi contenitori di sughero e li posizionavo all’ombra dietro il nuraghe, per dare la possibilità anche agli animali che ne avessero avuto bisogno di potersi abbeverare. Durante i periodi di siccità, le donne venivano dai villaggi vicini, portando delle brocche di argilla o una parte dello stomaco dei maiali, che io riempivo d’acqua: ero diventato il dispensatore dell’acqua, il padrone della fonte. Mi conoscevano tutti gli abitanti dei villaggi vicini e la mia fama si era diffusa anche in pianura, forse anche nel villaggio dei miei nemici. Spesso mi veniva chiesto di fare un sacrificio, di invocare il benvolere degli dei, per propiziare una pioggia che tardava ad arrivare. A volte mi chiamavano per curare un ferito e fermarne l’emorragia o per aiutare una partoriente quando il neonato non aveva nessuna intenzione di uscire a scoprire il mondo, conoscere il padre e la madre ed essere festeggiato da tutti gli abitanti del villaggio. Io ero considerato l’amico degli dei, il benvoluto, considerato che ero stato risparmiato la notte del massacro e quindi loro mi avrebbero concesso qualunque cosa io avessi chiesto. Mi ricordo una mattina, quando alcuni uomini vennero a cercarmi a Noddule. Erano venuti a cavallo dal villaggio di Nunnale, chiedevano il mio intervento immediato, un giovane era ferito gravemente e perdeva molto sangue. Uscii immediatamente dal nuraghe, che ormai era diventata la mia dimora abituale e andai a prendere il cavallo che stava legato a una grossa quercia, lì vicino. Era un cavallo baio, con in fronte una macchia bianca, che ricordava una stella. Mi era stato donato dal capotribù del villaggio di Galile, perchè gli avevo fatto nascere l’unico erede, in un parto molto difficile. Il neonato al momento del parto era messo male e la situazione stava diventando molto problematica per la salute della partoriente e del nascituro. Con l’esperienza acquisita nel tempo con gli animali, ero riuscito, infilando la mano nell’utero, a mettere il bambino nella posizione ideale e facilitare in questo modo il parto. La gioia del padre e di tutto il villaggio fu così grande che i festeggiamenti durarono una settimana, con sacrifici di agnelli e capretti, che finirono infilati negli spiedi e arrostiti. Montato a cavallo raggiunsi i due messaggeri e a gran galoppo partimmo in direzione del villaggio indicatomi. Conoscevo Nunnale e tutta la zona, perché ci andavo a caccia con mio padre e sapevo come abbreviare il percorso, prendendo una scorciatoia in mezzo ai boschi. Quando raggiunsi il villaggio, il ferito era grave, aveva perso molto sangue, il masso che gli era caduto sopra la gamba gli aveva maciullato il piede destro.
Non c’era un attimo da perdere. Presi dalla bisaccia un legaccio di pelle di bue, che portavo sempre con me e lo legai sopra il ginocchio, stringendo forte in modo da bloccare l’emorragia. Tolsi il coltello dal fodero e lo misi sopra la fiamma per alcuni minuti. Il ferito ormai era privo di sensi, feci subito un’incisione all’altezza del ginocchio e dopo aver tagliato i legamenti attorno all’osso, staccai con forza la gamba.
Gli astanti erano inorriditi ed erano rimasti impietriti osservando tutte le fasi dell’operazione, che non doveva essere durata più di mezz’ora. Ripulii bene la ferita e la cauterizzai con il midollo avvizzito di quercia, che utilizzavo anche per bloccare le emorragie, poi con il muschio e dei panni ricoprii la ferita e avvolsi il tutto con le cordicelle di bue, che portavo sempre come nella bisaccia. L’intervento era finito, ora bisognava soltanto aspettare, sperando che gli fosse rimasto in circolo abbastanza sangue. Il ferito era molto pallido, respirava debolmente, ma aveva un fisico forte e con una buona dose di fortuna poteva superare l’intervento. Dopo un paio di giorni, alcuni abitanti vennero a trovarmi a Noddule e mi riferirono che Ungrone (così si chiamava il ferito) si era svegliato e che, nonostante gli avessi amputato la gamba, mi ringraziava per avergli salvato la vita e in segno di gratitudine mi mandava una navicella di bronzo da offrire al dio della fonte. Accettai di buon grado il dono e promisi agli ambasciatori che sarei andato a trovarli, anche per visitare il ferito e ringraziarlo di persona per il prezioso regalo ricevuto. Una mattina che ero andato nel bosco per raccogliere delle erbe medicinali venne a trovarmi nel nuraghe Massan, il capotribù di Erthola. Era molto pensieroso e stranamente aveva portato con sé anche due giovani guerrieri, armati di tutto punto. Massan era conosciuto in tutti i villaggi della zona per il suo coraggio, oltre che per la forza, poteva avere poco più di cinquant’anni. Aveva perso la moglie in parto, quando io ero ancora bambino e da allora non aveva più cercato di sostituirla con un’altra donna, nonostante lui fosse di bella presenza e sicuramente corteggiato da tante giovani dei villaggi vicini. Scrutai i lineamenti del suo viso per cercare di capire il motivo di quella strana visita. Forse si era invaghito di qualche bellissima giovinetta e si era finalmente deciso a prendere moglie? O forse aveva qualche ferita ed era venuto per farsi curare? Rimasi con le mie supposizioni solo per un attimo, mi fece cenno di seguirlo dentro il nuraghe, in modo che la conversazione fosse più segreta. Parlò in modo abbastanza concitato per una decina di minuti, facendo attenzione a non sollevare il tono di voce; doveva costargli molto, considerato l’argomento. In breve mi raccontò un fatto, di cui era stato testimone, pochi giorni prima, in un villaggio della pianura, dove era andato per vendere delle pelli. In un villaggio vicino al mare si era diffusa una strana malattia contagiosa, che portava alla morte nel giro di pochi giorni. Il capo del villaggio aveva fatto bruciare i corpi, per non diffondersi l’epidemia, ma ciò nonostante si continuava a morire, il villaggio era ormai dimezzato. Quello che più meravigliava è che questa strana malattia colpiva anche i più giovani e i più forti oltre che gli anziani, come se non guardasse in faccia l’età o il vigore di chi si ammalava. Le famiglie più fortunate erano già andate via dal villaggio, cercando di evitare in questo modo la malattia e anche Massan era giunto a questa soluzione, pur di non vedere morire il resto degli abitanti. Quello che lo preoccupava ancora di più è che gli era giunta voce di molti altri villaggi della costa, i quali erano stati colpiti dalla peste e completamente annientati e che i pochi superstiti avevano cercato scampo nei monti più lontani. Il fatto doveva corrispondere a verità, perché anche lui aveva visto il fumo delle pire che proveniva proprio dalla pianura. Ecco il motivo della visita di Massan ed ecco spiegata la tristezza e la preoccupazione che traspariva dal suo sguardo. Io rimasi ad ascoltare con attenzione quanto mi riferiva. Dalla mia espressione Massan aveva capito che anche per me questa notizia era sconvolgente e che molto probabilmente era una malattia che neppure io sarei riuscito a curare, nonostante le mie conoscenze. Gli dissi che avrei studiato il caso e che sarei andato a trovarlo a Erthola quanto prima.
Dopo un cenno di saluto Massan uscì dal nuraghe e andò incontro ai due uomini che l’avevano accompagnato e insieme ripresero la via di ritorno verso il villaggio. Per una settimana rimasi a Noddule cercando di capire la provenienza di quella strana malattia, così letale e se ci fosse un eventuale rimedio. Non riuscendo a darmi una risposta, decisi di andare al villaggio di Erthola a trovare Massan. Dopo un paio d’ore di cammino, quando ormai ero vicino al villaggio, sentii un odore acre di carne bruciata e vidi un fumo che proveniva dalle capanne. Nessuno mi veniva incontro, come di solito, il villaggio sembrava deserto, abbandonato, in giro neanche un animale. Senza smontare da cavallo passai affianco alle capanne, tutte le loro coperture fatte di frasche e rami erano annerite dal fumo e dal fuoco. I loro abitanti, appena qualcuno di essi aveva preso la peste, avevano bruciato le capanne dei contagiati e guidati da Massan avevano abbandonato il villaggio e si erano immediatamente rifugiati nei monti. Feci ritorno a Noddule quando ormai stava per fare sera, rimuginando quanto mi aveva detto Massan. Qualche settimana dopo venni a sapere che tutti i villaggi della pianura avevano avuto la stessa sorte di Erthola e gli abitanti sopravvissuti alla peste avevano abbandonato le capanne e si erano rifugiati lontano. Nunnale, Galile, Erthola, Ila Ila, Noddule, Lardine e tanti altri erano diventati villaggi fantasma. Anch’io, temendo chissà quale punizione divina, abbandonai il mio nuraghe e la fonte di Noddule e prese le cose più importanti, montai a cavallo e mi diressi là, dove tramonta il sole.

 

COSTANTINO LONGU FRANCESCHINO SATTA POESIAS SARDAS CONTOS POESIE IN LINGUA ITALIANA