I matti di mare
di Francesco Pasella

 

Troppo lontana la sera

Il borgo di Taichì era un paese di poche anime perso tra la pianura del nord e il mare. Di quale nord non saprei dire. Di quale mare tanto meno. Talmente perso, che nessuno l'avrebbe trovato, e forse neanche cercato. Non c'era nessun solstizio, né un equinozio e il vecchio fondatore del paese, un commerciante indocinese che ne fece una base per i suoi traffici più o meno loschi era scomparso da tempo. Nell'inventario urbano non mancavano una piazza, piccoli appezzamenti per la sussistenza degli indigeni e casette basse basse, in file talmente ordinate da creare uno squallido disordine. Nell'abitazione all'uscita del paese viveva Herman Calvìs. L'unico abitante a transumare verso la costa a intervalli più o meno irregolari. Negli anni adolescenziali, lavorò per qualche anno come raccoglitore stagionale di carciofi. Poi, si mise in proprio. In un mondo di furbi si sentiva quasi in colpa a essere onesto.
Herman Calvìs viveva con una misera pensione di invalidità muovendosi con un vecchio motorino per le vie del borgo, sfuggente agli sguardi degli altri. Le poche volte che si recava a taichì era per ritirare nell'ufficio postale la sua pensione. Da piccolo era sempre stato dietro le gonne della madre, Lavinia, donna minuta e tetra, dedita al cucito e al ricamo. D'inverno,seguiva il padre, muratore frontaliero, e durante l'estate si dedicava all'orto domestico, mezzo di sussistenza fondamentale nella povera economia della famiglia. Una brutta polmonite portò prima via la madre in un'orrida notte di febbraio. Quasi un anno dopo perse anche il padre in un incidente sul lavoro.
Si ritrovò solo. Decise di coltivare l'orto e vendere ai turisti costieri i prodotti della terra per arrotondare la sua misera pensione e sopravvivere al lungo inverno di Taichì.
La località costiera in cui si recava stagionalmente per vendere gli ortaggi era a circa dieci chilometri dal suo borgo natio. C'era allora nella località balneare di Indoormar uno strano turismo pioneristico e insolito che si divideva tra la spiaggia dei nudisti cinesi nella Cala serrada, luogo misterioso e demonizzato dagli abitanti di indoormar che segretamente sognavano di andarci, lambendo e spiando i naturisti dalle loro barche da pesca, e la spiaggia normal dove si recavano le famigliole locali a fare il bagno munite di scafandro.
Le seconde case degli abitanti di indoormar erano occupate dai turisti cinesi, che una volta arrivati in paese e prenotate le case, noleggiavano ogni mattino i gozzi ormeggiati nel porticciolo per raggiungere Cala Serrada facendo rientro la sera nelle abitazioni. Spesso, portavano con sé delle piccole cassapanche intagliate. Questo, nei primi tempi, aveva destato un certo sospetto da parte degli abitanti di indoormar, ma poi ogni dubbio era svanito attribuendo una stranezza genetica a dei cinesi, perlopiù naturisti.
Herman li aspettava sulla banchina del porto al loro rientro serale, per vendere loro i prodotti del suo orto. Con un metodo artigianale aveva agganciato al suo motorino un carretto in legno e percorreva le stradine di campagna per evitare salatissime multe. Gli abitanti di indoormar gli ridevano dietro, soprattutto quelli che ciondolavano tutto il giorno difronte al Bar Del porto, l'unico ritrovo notturno e diurno della località. Forse, vedevano in lui un elemento debole, e scaricavano la propria miseria e nullità su quel giovane uomo. Herman inghiottiva lacrime di sale e posizionava il suo carretto sulla banchina in maniera ordinata e pulita. Accanto a lui un altro strano ambulante vendeva libri usati. Era un uomo sulla quarantina, conosciuto nel luogo col nomignolo di Barbuziente, alto, robusto e barbuto, che parlava poco e malvolentieri, forse per nascondere la sua balbuzie. Si diceva avesse girato tutto il mondo. Era solito regalare a Herman dei libri d'avventura e questi ricambiava regalandogli gli ortaggi che coltivava. Herman Calvìs divorava quei libri negli inverni lunghi e solitari.
Poi,d'incanto, le sere d'estate arrivavano i cinesi: alcuni passavano indifferenti difronte agli ambulanti, altri con fare gentile acquistavano libri e ortaggi. C'erano in particolare due donne, entrambe more e minute, che spesso si trattenevano a parlare con Herman in un simpatico italiano.
Una sera torrida d'inizio agosto, al rientro dalla spiaggia una delle due donne asiatiche gli chiese se l'indomani, al mattino, sarebbe voluto andare a Cala Serrada con loro. Herman manifestò evidenti segni di indecisione. Si lasciarono con l'accordo che se si fosse deciso ad andare, l'avrebbero aspettato sino alle sette e un quarto sulla banchina del porto.
Quella fu una notte tormentata. Herman tardò a prendere sonno. Pensava a cosa fare l'indomani. Spesso, prima di addormentarsi, scriveva brevi versi su un taccuino trovato nella soffitta di casa. Quella sera era immobilizzato dai pensieri e la testa gli scoppiava.
Si alzò. Uscì nel portico dove su una sedia vide posato uno degli ultimi libri che gli aveva regalato Barbuziente. L'autore era un tale di nome Loris Griot. Il romanzo iniziava con queste parole:
Liquami infangano l'orto delle certezze. La mia giornata è un calvario di caffè amari, un pertugio di coscienza plasmato dall'inconsistenza del giorno.
Il mio è un destino monastico, dopo il dolore c'è uno strano vuoto; parliamo ma regna il silenzio.
Solo l'orizzonte può redimere la sera.
Herman non capiva a fondo il senso di tali parole. Si sforzava. La testa gli scoppiava. Decise di fare un passeggiata. Il sentiero era appena rischiarato, costellato di rumori e ombre che apparivano felici al suo passaggio. Arrivò sino alla cascata sul Rio Gentil. Si fermò. Ascoltò il suono dell'acqua. Una serie di pensieri gli attraversavano la mente. Doveva rientrare. Se avesse portato con sé una maledetta penna sarebbe potuto rimanere. Passo dopo passo rientrò a casa. Prese uno dei soliti fogli di carta riciclata ma non riuscì a buttare giù una riga. Si distese sul divano. Una vampata di sonno lo fece addormentare. Piombò in un sonno onirico.
Si sveglio col cuore in petto, peggio di averlo in gola. Erano le sei in punto. Decise di prepararsi in fretta e uscire. L'acqua nel catino era stagnante, ma non c'era tempo per andare alla fontana a prenderne della fresca. Si risciacquò in poche battute. Il torpore rimase. Chiuse l'uscio di casa e si incamminò verso il motorino. Stacco il carretto per portare gli ortaggi e cercò di mettere in moto il fidato mezzo. Quasi dieci anni di onorata carriera al suo servizio. Per la prima volta fece le bizze. Non partì al primo colpo. Tossiva ma non ruggiva. Era mancata la miscela. Herman Calvìs corse a perdifiato verso la casa di Jack Lamer, un emigrato francese possessore di trattore. L'unico che avrebbe potuto aiutarlo.
Casa Lamer a quell'ora ancora dormiva. Solo Jack, solo sotto il portico della casa, fumava una sigaretta appena arrotolata carico di insonnia e dolori.
“Buoongioorno” disse il vecchio Lamer a Herman, esasperando le vocali.
“ Jack, scusa l'ora ma mi devi aiutare, mi serve un po' di miscela per il vecchio motorino. Proprio stamattina ha deciso di lasciarmi a piedi”.
“ Andiamo nel capanno Herman: ho un po' di benzina e olio lubrificante”.
Si avviarono verso il capanno. Herman Calvìs precedeva il vecchio di qualche lunghezza. Il vecchio Lamer qualche anno addietro era scivolato da un pendio e portava ancora addosso i segni della rovinosa caduta.
“ Sei fortunato Herman”, disse Lamer, “ho una tanica di benzina e lubrificante a volontà”.
Detto questo preparò la miscela mentre Herman Calvìs attendeva impaziente. In un attimo fu pronta.
“ Grazie”, disse Herman “come posso sdebitarmi?”.
“ Corri a perdifiato per non mancare all'appuntamento” disse Lamer strizzando l'occhio in segno di complicità.
Herman Calvìs, seguì il consiglio. Sbilanciato dal peso della tanica levò le gambe da terra, variando a volte il peso da un braccio all'altro con la forza del desiderio. Batté il record campestre di traversata. Peccato non fosse una gara. Con quella motivazione, avrebbe sicuramente vinto.
Giunto a destinazione, senza neanche rifiatare, versò il liquido nel fedele..almeno sino ad allora.. due tempi.
Prego con tutta la forza si accendesse subito. Primo strappo. Primo Ruggito. Era andata.
Il mattino era ancora pallido ma sereno. Herman Calvìs sobbalzava con un misto di timore e forza temendo a ogni passo.. pardon...buca.. un imprevisto. Arrivò alla sommità della collina. Oramai era fatta. Quel maledetto motore si sarebbe anche potuto fermare ma lui non avrebbe desistito. Avrebbe abbandonato la ferraglia lungo la strada. Avrebbe corso giù fino a indoormar, seguendo ogni frammento senza tregua di visione. Solo il fiato accelerato a fargli compagnia. Invece il motorino faceva il suo dovere. Seguiva con perizia la lunga e tormentata discesa verso il porto di indoormar, lambendo le piccole insenature in cui tante volte Herman Calvìs aveva trovato refrigerio nelle soste del viaggio.
“ Arrivoooooo” gridò Herman Calvìs lungo la discesa. Si vergognò un poco con sé stesso. Parlava sempre sottovoce e oggi urlava. Alla terra, al mare, al cielo.
Mancava ormai poco all'arrivo al porto. Herman Calvìs osservo l'orario nell'orologio della torre campanaria post-moderna posta a corollario della chiesa avveniristica. Erano le sette e un quarto appena passate. Il cuore cominciò a cavalcargli in gola. Temeva di non farcela e contemporaneamente il suo carattere rinunciatario sperava che le cinesi fossero già partite. Intravide la banchina. Non erano ancora partite. Nascondersi dietro l'angolo o raggiungerle? Si buttò. Come mai aveva fatto. In meno di una manciata di secondi era sulla banchina.
Le cinesi lo salutarono con grazia e gentilezza.
“Herman Calvìs, riuscito a venire, allora”, disse una delle due cinesi.
“ Sì, ho avuto qualche contrattempo ma alla fine ce l'ho fatta “ disse ancora trafelato.
“ Bene. Partire subito” disse l'altra cinesina con un sorriso.
Senza dire una parola salirono in tre sulla barca. Per l'esattezza un gozzo appena riverniciato con la linea di galleggiamento blu marino e qualche anno sul groppone. Filava liscio. Senza uno scossone. Le prime luci del mattino brillavano in tremanti luccichii sulla superficie del mare. Herman Calvìs non aveva mai abbandonato la terra ferma. Era felice.
Cala Serrada era sempre stata a un passo dalla sua vista. Sempre così vicina eppure così irraggiungibile. Lo stato d'animo di Herman Calvìs mutava come i colori del mare, il blu profondo e insondabile, la serenità dello smeraldo, la bellezza trasparente dei fondali più bassi.
La bellezza di dimenticare il tempo.
Poco più avanti altri gozzi. Altri cinesi in marcia verso la spiaggia proibita oramai alle porte. Timidi saluti. Timidi sorrisi. Herman si chiese se fosse giusto chiedere il nome alle due ragazze. Decise per il no: tanto sarebbe stato troppo difficile pronunciarlo e poi i nomi contano ben poco, si disse.
“ Potere scendere, ora, Herman ” disse una delle cinesi svegliandolo da un sogno.
Herman Calvìs balbettò qualcosa e scese maldestramente dal gozzo.
Sparse a piccoli capannelli esili donne cinesi svestite prendevano il sole nella cala. Le due donne scaricarono una piccola cassapanca di legno posandola con garbo.
“Herman,venire con noi?” gli chiesero le cinesi. “Noi, andare nell'interno dell'isola”. .
Herman disse che voleva riposarsi e rinfrescarsi un poco. Chiese se poteva raggiungerle in seguito.
“ Certo, seguire la strada maestra”.
Mentre Herman si apprestava a chiedere altre spiegazioni le cinesi afferrarono la cassapanca e si dileguarono in fretta verso la foresta.
Herman si guardò attorno. Non si sentiva affatto intimorito. Vagò per un po' sulla battigia. Si sentiva lontano, sospeso nel tempo. Si tolse la maglietta. Prese per un po' il sole. Si immerse nell'acqua per trovare refrigerio. Poi decise di seguire il sentiero interno per raggiungere le due donne. Le altre donne cinesi presenti sulla spiaggia lo guardavano divertite e impudiche.
Si rimise la maglietta e si addentrò nella foresta. Il sentiero era stretto e tortuoso ma andava avanti per un po' in maniera lineare. Nessuna diramazione. Nessuna scelta. Ai bordi della strada Herman intravedeva dei piccoli orticelli e su un altopiano in lontananza una vigna. D'un tratto vide la strada interrompersi in una piccola radura. A est un tratturo si inerpicava sul pendio, a ovest una discesa dolce. Decise di far riposare le gambe. Lungo il declivio ricami d'ombra tra gli alberi e una quiete appena disturbata dalla paura dell'ignoto. Senza un perché gli venne in mente Barbuziente. Quell'uomo gli aveva regalato dei libri, gli aveva aperto tante porte. Ora Herman sentiva di aver varcato la soglia. Finalmente. La porta era aperta e gli occhi gonfi di lacrime. Gonfi di tanta solitudine. Sentì delle voci non troppo lontane. Affrettò il passo. Seguì il suono dell'acqua. Pochi passi. Una laguna gli si aprì difronte come una visione. Una cascata. Le cinesi erano poco più in là. Con loro un vecchio che sedeva su una panchina di pietra. La cassapanca chiusa.
Herman si avvicinò. Voleva sapere.
“Ciao Herman”, disse una delle due Cinesi.
“Ci hai trovato” affermò l'altra con un leggero sorriso.
Herman era sempre stato restio a fare domande. Questa volta sentiva di poter parlare.
“ Chi è questo Signore?” chiese con titubanza.
“ Nostro padre ” dissero quasi contemporaneamente le due sorelle.
“ Perché è nascosto?” chiese Herman.
“ Lo proteggiamo dal mondo, lo custodiamo nella laguna, per un periodo di riposo lontano dagli sguardi pietosi della civiltà” disse una delle sorelle.
“Di notte dorme nel villaggio a nord dell'isola” aggiunse subito dopo.
“Di giorno rimanere con noi” disse l'altra.
Herman era stupito. La parola “custodiamo”, pronunciata da una delle ragazze lo aveva sorpreso. Nessuno voleva custodire la vecchiaia. Sentiva che tutti ne fuggivano. Tutti ne erano infastiditi.
“La cassapanca cosa trasporta?” chiese Herman.
“ Aprire..tu”disse una delle cinesi.
Herman si avvicinò. Aprì la cassapanca. Era vuota. Guardò stupito le cinesi.
“ Il mio pranzo” disse ridendo il vecchio cinese.
Le figlie risero di gusto. Herman scoppiò ugualmente in una risata. Le apparenze sono ombre. Le nudità spesso allontanano la stupidità. Il vecchio prese un vecchio foglio ingiallito e lo pose a Herman. C'erano strani segni incomprensibili. Herman ripose il foglio in tasca. Sulla strada del ritorno non ci fu una parola tra lui e le due sorelle. Arrivati sulla banchina si salutarono con garbo e dolcezza.
Barbuziente stranamente non c'era.
Herman prese la via del ritorno, felice di quello che aveva visto. Nella fretta di rientrare a casa perse il vecchio foglio ingiallito sul molo e quasi se ne dimenticò anche l'indomani.


Posapiano

Walter detto “posapiano” in quell'afosa notte scriveva. La pancia gli scoppiava. Il corpo gli doleva.
Amava l'intimità dei luoghi vissuti e natii e la magnifica inebriante estraneazione delle vie sconosciute.
Amava le persone che fanno grandi i piccoli luoghi, e le grandi persone che colgono le infinite innumerevoli possibilità delle megalopoli riuscendo nella loro battaglia onesta coi propri dèmoni.
Talento e costanza. Rabbia e amore. Odiava chiedere aiuto e ancor di più le persone a cui aveva dato tanto e che non si proponevano di dargli una mano quando era in uno stato di vera necessità esistenziale.
Era convinto che le crisi etiche, generazionali ed economiche creino entità indefinibili,irriconoscibili,decisamente più impalpabili e subdole dei vecchi mostri.
Credeva che l' unica compatibilità tra la poesia e la politica,risiedesse nell'identicità delle prime due lettere di ciascuna parola; e che fosse più facile dare il voto a un becchino che a un ufficiale giudiziario con il coraggio di candidarsi.
Diceva anche che la vera letteratura scaturisce sempre dal dolore,da quel dolore che continuamente fuggiamo,e che continuamente ci assale,alimentando le nostre ossessioni,visioni,vibrazioni;quello stesso dolore che soggiace perennemente al nostro eterno bisogno di armonia,dentro un cumulo d'universo funambolico sull'orlo di un abisso di silicio. Maledetti scostanti giocolieri di versi sufficientemente sobri di mente per non scadere nel delirio. Poeti, gentili e inquieti.
Walter, detto Posapiano, non aveva più sogni,ma solo rabbia. Eppure era immerso nelle parole, imprigionato in una cella il cui fiume sotterraneo rompeva gli argini per straripare in copiose parole. Solo una manciata di lividi a contorno del buio. Il nulla, era la durezza della vita che ancora non riusciva a rivestire d'indifferenza il suo cuore. Non riusciva a gioire dell'altrui stupidità. Lunghi tempi di saturazione fanno implodere le sillabe prima di trovare la luce.
Walter si alzò,uscì nella solitaria strada montana e prese a camminare,come tante volte aveva fatto.
Mentre discendeva la valle vide un uomo barbuto, su una vecchia bici, che faticosamente arrancava in salita.
L'uomo lo salutò. Walter rispose al saluto e chiese all'uomo scherzosamente se il traguardo fosse molto lontano.
L'uomo barbuto si fermò.
“Sulla terra non c'è un traguardo”-rispose- “solo passaggi e cicli”.
“ Venga a bere un buon bicchiere di vino da me” disse Walter, che da tanto tempo non scambiava con qualcuno due parole. “La mia baita, non è molto lontana”aggiunse.
“Va bene, farò volentieri una sosta”disse l'uomo barbuto,stremato dalla salita.
Detto questo risalirono verso la baita, senza dire una parola.
Appena entrati Walter invitò il forestiero a sedersi al tavolo. Versò del vino rosso in due bicchieri e chiese allo straniero il suo nome.
L'uomo barbuto disse di chiamarsi Gerome e di esser stato un marinaio.
“ Ormai, non navigo più da un pezzo, ho deciso di girare con la bici in lungo e in largo, con i piedi ben saldati a terra” aggiunse balbettando vistosamente.
Walter si incuriosì subito per l'affermazione di Gerome e decise che voleva saperne di più.
“Eri imbarcato da tanto tempo?”chiese.
“Ero mozzo sul transatlantico “Oltrelostretto”, partivamo da Città Sfiorita nel nord europa, per sbarcare al molo del sud America, nella città dei santi”.
“ Per oltre un mese bivaccavamo, tra donne e liquori, credo fossimo di tutto meno che asceti”aggiunse ridendo.
“Non hai moglie, o famiglia?”chiese Walter.
“No,sono partito molto giovane da un piccolo paese di montagna come questo, senza più farvi ritorno”disse, con una punta d'amarezza.
“Ero il più piccolo di una famiglia numerosa, sognavo di viaggiare..ho visto tanto ma perso tanto nella lontananza”aggiunse Gerome abbassando lo sguardo.
“ Io, invece”, disse Walter “non ho mai avuto il coraggio di partire”.Mentre proferì con rassegnazione e rabbia queste parole, posò con una lentezza inaudita il bicchiere sul tavolo.
Gerome notò la sua inquietudine e non osò fargli nessuna domanda. I marinai sanno, quando è meglio tacere e non andare oltre.
L'ospite fece per alzarsi ma Walter gli chiese di rimanere ancora un po', e trattenersi a cena per continuare la discussione.
Gerome, all'inizio cercò di rifiutare, poi spinto dall'ora tarda e dalla fame incombente decise di accettare l'invito.
Walter attizzò il fuoco con altra legna,mise un paio di braciole ad arrostire nell'enorme rustico camino e nella cucina a legna riscaldò una zuppa di lenticchie che aveva preparato nel pomeriggio.
Da tanto tempo non aveva ospiti a cena e sentiva il bisogno di scambiare qualche parola con qualcuno.
“Bella la tua baita” disse Gerome.
“ L'ho ereditata da mio nonno dieci anni fa, dopo la sua morte, era un famoso scalatore.Un uomo dolce e rude come queste montagne”disse Walter, non senza un filo di commozione.
Walter offrì allo straniero anche formaggi da lui prodotti, e per finire squisiti dolci di mandorle accompagnati da un digestivo di erbe montane.
“Non ho mai visto il mare”confesso Walter a Gerome, all'improvviso.“Non ci crederai, ma nell'epoca dei viaggi a basso costo, non sono mai riuscito a vedere il mare”.
Gerome rimase sorpreso dall'affermazione di Walter.
“Si può sempre rimediare”disse il marinaio “ nel centro di Boltan, a valle, c'è un treno che ogni giorno viaggia verso la costa del marmo, non sarà il mare dei raicabi, o della ardegnas, ma vale la pena di vederlo”aggiunse.
“Devo ultimare l'ultimo romanzo, e poi...forse..andrò a vedere il mare”disse Walter.
“Si è fatto tardi”disse Gerome “è ora che continui nel mio vagare tra i monti alla ricerca del mio paesino perduto..ho paura..però”.
Walter comprese che Gerome aveva paura di non trovare più il suo passato e rifuggiva la mèta di continuo.
“Se vuoi puoi passare qui la notte e l'indomani ripartire” propose Walter.
“No disse Gerome, la nottata è fresca ma il chiarore della luna mi indicherà la strada, non posso più perdere tempo”.
D'un tratto si alzò di scatto, saluto e ringraziò gentilmente Walter per la cena e uscì nel buio salutandolo con la mano.
Walter quella notte non riuscì a dormire. Ultimò il suo romanzo con gorghi di parole e una frenesia inaudita di concluderlo,quasi fosse il suo testamento. L'indomani,appena entrato in cucina, ritrovò un foglio ingiallito sulla sedia in cui la sera innanzi stava seduto Gerome. Mise il foglio in tasca riproponendosi di leggerlo non appena sarebbe arrivato a Boltan. Il mattino era ancora freddo, sulla camicia mise un pesante maglione, calzò un paio di scarpe comode e robuste per affrontare i chilometri che lo dividevano dal centro maggiore della zona, bevette un caffè lungo e amaro e uscì carico d'angoscia. Stava per affrontare il primo viaggio della sua vita.


Vite di superficie


La mia non è una generazione,
è un surrogato di individualismo
e indifferenza che naviga tra buie pareti.


“Non c’è immagine più attraente, di una bella donna che ti passa davanti portandosi dietro una valigia”. Era questa la frase che ripeteva spesso. Nella sua mente non figurava partenze verso luoghi esotici e sconosciuti, ma solo ritorni. Ritorni, nelle luoghi dove i sogni si mescolano alle radici. Ritorni, nelle case dell’affetto sottratto dalle partenze, motivate da mille sentimenti, necessità o ambizioni.
Quel fine settimana decise di tornare a casa. Negli ultimi tempi sentiva nostalgia per la sua famiglia e il forte desiderio d’indipendenza iniziale era quasi sparito. Aveva preso l’ultimo treno e non aveva avvertito i suoi del rientro.
Affacciandosi al finestrino pensò che non ci sarebbe mai stato lo stesso uomo a vedere le stesse cose, ad esser visto dalle stesse persone. L’umanità pulsante viveva i suoi attimi sconosciuti portandosi dietro bagagli invisibili, mostrando solo corpi in eterna mutazione, sconosciuti volti scolpiti dal tempo. Il vagone era semivuoto. Solo una giovane donna sedeva di fronte a lui e sembrava sicura e assorta nei suoi pensieri
Aveva passato la solita settimana in città, fatta di lezioni all’università, pause caffè, pizze in compagnia e locali frequentati da studenti. Era di qualche anno in ritardo con gli studi e non amava particolarmente la facoltà che aveva scelto. Il giorno prima di partire una ragazza l’aveva ferito a morte e non riusciva a dimenticare quella parole. Risentiva in continuazione le parole dette al suo amico: “Non do il mio numero a cani e porci”. Parole, che a molti sarebbero scivolate addosso. Non a lui, però, che da sempre diventava rosso a ogni parola detta o sentita. Non a lui, che aveva sempre rinunciato a lottare per paura di vincere o offendere qualcuno. Sentiva forte, il desiderio di appartarsi, come quando si deve prendere una decisione importante e non si può più rimandare.
Era continuamente assalito dall’idea pungente che gli altri sapessero vivere meglio di lui. Si chiedeva in continuazione quali maledetti scompensi non gli avessero dato stabilità emotiva.
Decise, che avrebbe bruciato il suo disordine esistenziale in un falò della memoria.
Aveva per anni ingannato il tempo sottraendosi ai doveri. Anche se, la provenienza da una famiglia agiata gli aveva evitato le umiliazioni che il suo carattere orgoglioso non avrebbero sicuramente retto sentiva mancargli qualcosa, si sentiva in debito con la fortuna. D’altro canto, era colpa sua se non aveva sfruttato al meglio le opportunità che a molti la vita negava e per non aver reso felice chi gli aveva voluto bene.
L’odio, spesso gli scorreva nelle vene, e oscillava tra il desiderio di distruggersi o distruggere gli altri. E più volte, gli passava per la mente l’idea di una vita da eremita borghese.
In fondo a ogni unione, c’è la paura di rimanere soli, vivere soli, morire soli. Stare in solitudine, per una scelta propria o degli altri è un atto di vigliaccheria e di coraggio insieme. Non sapeva se avrebbe retto.
Non voleva essere timbrato a fuoco con un nome; sempre immerso nell’attimo eterno in cui sarebbe vissuto e morto; fugace nella mente di chi l’ avrebbe conosciuto o sfiorato, nella menzogna vestita di verità che ognuno ha degli altri. Voleva esprimere la sua poesia senza svenderla, donando una parte di sè stesso al mondo. Cosa avrebbe lasciato? Solo comode stanze, dove all’imbrunire aprire le imposte e chiudere il suo cuore.
Forse, doveva imparare ad amarsi e ad amare gli altri. Invece, era sempre trasandato nell’aspetto e ogni persona lo irritava e lo stancava. E finiva per odiarla e tradirla.
Il treno si fermò alla prima stazione. Salì un solo uomo da quella stazione e si sedette dirimpetto a lui. Aveva l'aria di un montanaro,con indosso pantaloni di flanella e un maglione pesante oltre a pesanti scarponi ai piedi. Notò la lentezza dei movimenti dell'uomo nel sedersi.
Dorian lo osservò per un istante,poi tornò ai suoi pensieri. Pensò al rientro a casa, alle passeggiate nel verde della campagna autunnale, alle feste che il suo cane gli avrebbe fatto. Pensò, a quanto sarebbe stata indifferente agli amici la sua assenza. Pensò, a come la poesia aveva sopperito per anni al suo male di vivere, alle mancanze dell’animo, alle rinunce volontarie, alla mancanza di coraggio. Allo stesso tempo sentì forte, il desiderio di rimanere per sempre su quel treno. Sentì forte, il desiderio di non essere mai più deriso da nessuno e scomparire.
Le immagini della sua vita scorrevano e si accavallavano, e ogni istantanea lo feriva.
Si alzò in piedi avvicinandosi al finestrino. Lo aprì. Sentì forte l’inquietante rumore metallico e l’aria fredda. Osservò il mattino inoltratro. Vide le luci lontane. Il volto di sua madre, la voce di suo padre.
Ma la sua vita, era ancora riflessa nel buio, e odiava il suo volto. Da sempre lo odiava. Ma sentiva, per compenso, la forza quasi animale che pulsava nel suo corpo giovane e sano, e il suo istinto di conservazione, lo chiamava. Il suo piccolo cuore pulsava nella sopravvivenza eterna.
Si appoggiò al finestrino.
Fissò il vuoto, distorto freneticamente dal movimento del treno.
“Ehi ragazzo” disse l'uomo che gli sedeva davanti, svegliandolo dal suo isolamento.
“Sì” disse Dorian.
“ Quanto manca per arrivare alla costa?”
“Altre cinque fermate, signore, arriverà per la sera”.
“Tu scendi a breve o prosegui sino al capolinea?”chiese il montanaro.
“Scenderò alla prossima stazione signore”disse Dorian.
“Ti vedo pensieroso”disse l'uomo“Qualche problema ti affligge?”
“Niente in particolare” rispose Dorian.
“Senti, scusa se mi sono permesso di farti domande, ma anch'io alla tua età soffrivo l'isolamento umano..prima che tu vada voglio regalarti questi foglio..sento che ne avrai bisogno”.
Nel frattempo il treno stava per fermarsi. Dorian prese il foglio ingiallito e lo mise in tasca.
Salutò con un cenno il montanaro, prese la valigia e si preparò a scendere alla sua fermata.
La stazione era la sempre linda e accogliente. Salutò il capostazione e si incamminò verso casa.
Dopo alcuni passi vide un vecchio seduto su una panca di lato a una fontana. Decise di avvicinarsi per bere.
“La solitudine non è più un male dell'inverno ma la condanna della primavera”disse il vecchio.
Dorian aveva sempre visto quell'uomo, e improvvisamente si ricordò che in paese era considerato una specie di pazzo. A volte, il vecchio era preda di violente furie. Da giovane,l'uomo si era salvato da un violento sisma in una terra lontana, e da vecchio era ritornato in paese. Ebbe un moto di paura e si affrettò a bere per andar via. Si ricordò che l'uomo aveva una passione per i giornali e la carta: prese dal taschino il vecchio foglio ingiallito regalatogli sul treno e glielo diede. Il vecchio rise e ammirò stupito l'inatteso regalò. Dorian lo salutò in tutta fretta e proseguì verso casa.
Troppi incontri, per quella sera, gli avevano scosso le corde dell'esistenza senza infrangere gli argini del suo mondo.


Tremore notturno

Non so come sia possibile.
Non so cosa mi assalga in certe notti di fine agosto.
Quando mi è difficile sentire dalla finestra di ponente lo sciabordio dell’acqua,
quando non posso neanche calare la tetra fune dal mio ballatoio montano;
sarà semplicemente il peso insopportabile di questa vita, viva, mediocre e normale, e bella, e tagliente, o la mancata rassegnazione di un istante.
Per non parlare dei morsi crudi della coscienza che non smette di perseguitarmi o la mia amorale asocialità di una notte.
Il vento ha mosso alcuni fogli di carta bianca scomponendoli sulla stampante, da troppo tempo non usata.
La pizza che ho mangiato era una schifo. A volte succede. Poco male.
Poco male anche il vaneggiamento di una notte o lo scritto che pregusta già occhi avidi di lettura e i programmi televisivi abbandonati, i libri che non riesco a leggere, la maschera che non getto più neanche per un maledetto istante.
Il richiamo di un viale alberato, che per una notte non avrà una figura pesante e sorridente a calcare il suo oscuro palcoscenico di comparse, mi accarezza senza sorridermi.
Ripetitivi battiti. Incolori. Tagliola di sogni. Potessi mostrarvi il cuore lo laverei nell'indecenza
del compromesso.
Un cumulo di macerie nel sole ombreggiato delle reminiscenze. Nessun fuoco a scaldare il mio eremo.

Queste, erano le frasi ricorrenti nella mente di Bàstia, nel percorso che ogni giorno compiva da casa sino alla bottega per acquistare il pane. L'unico suo momento sociale per scambiare due parole con la graziosa commessa.
“Come va, oggi, signor Bàstia?” chiese la commessa gentilmente,come ogni giorno usava fare.
“Più o meno come ieri”ripose l'uomo abbozzando un riso sconsolato.
“Vedrà, che la bella stagione le allevierà qualche malanno”disse con dolcezza la ragazza.
“Speriamo, mi passino anche i malanni dell'animo”rispose l'uomo.
“Non riesco a dimenticare..quel tremore”aggiunse.
“Lo so.”disse la ragazza. “Preghi Dio per essersi salvato. Ora, poteva non essere più qui a parlarne”.
“Cercherò di superare..”disse Bàstia poco convinto.
Detto questo, salutò la ragazza con la mano e si incamminò per il paese. Bastià aveva solo quarant'anni ma in paese, a causa del suo aspetto, tutti lo consideravano un vecchio. Era ancora giovane ma già viveva gli acciacchi del tempo. La paura che aveva provato, dieci anni prima, quando nella sua casa in legno aveva sentito quelle scosse l'avevano caricato di anni. Non riusciva a dimenticare quella sera di tanto tempo fa, quando fu l'unico in quel paese a salvarsi. Tutti a quell'epoca lo deridevano perché aveva costruito una casa in legno ai margini di un abitato in pietra, e lo ritenevano un pazzo perché un qualsiasi incendio avrebbe ridotto l'abitazione in cenere.
Bàstia si sedette come ogni mattino sulla panca a lato della fontana. Difronte a lui, coperto da una pila di cartoni dormiva Jan il vagabondo, l'unico senzatetto del paese. Dormiva e sembrava delirasse nel sonno e apriva le mani, come per afferrare qualcosa, e si rivolgeva a Bàstia con il volto, senza mai aprire gli occhi. Bàstia gli porse il foglio ingiallito, con un gesto naturale e meccanico insieme. Jan continuò a dormire tenendo ben stretto nel pugno il foglio.
Bastià continuò a osservarlo per qualche minuto. Poi, come ogni giorno, prese a fissare l'acqua sorgiva che sgorgava dalla fontana, e si perse in quella meravigliosa visione, che ogni mattino gli faceva vivere un nuovo miracolo.


I flauti della gogna

Castelli d'amianto. Labile confine sull'orlo dell'insofferenza”. Parlavo col silenzio.
“Sferzate di grandine. Tintinnio di metallo”. Continuo a non tacere.
Voraci agnelli
che bramano sangue pasquale.
Sconfinati deserti di maggio.
Rintocchi di desolazione.


Jan si risvegliò con la bocca impastata e un forte mal di testa. La fontana era deserta. Vide, in lontananza, un vecchio di spalle arrancare sul sentiero. La fontana,ora, era deserta. Nel pugno teneva un foglio ingiallito. Gli diede uno sguardo distratto, e senza pensarci molto lo gettò sugli altri cartoni, che per lui erano preziose lenzuola e coperte nelle notti passate all'addiaccio,da conservare gelosamente. Si avvicinò alla fontana, si lavò il volto trovando subito un po' di sollievo.
Era tornato in paese dopo aver girato con alterne fortune per mezzo globo. Nel frattempo i suoi familiari erano tutti morti, e alcuni vicini famelici gli avevano usucapito la casa e un piccolo podere. Così, senza il coraggio di partire un'altra volta, si era abbattuto a tal punto da finire sulla strada e vivere di elemosine. La sua salute era oramai minata dal freddo degli inverni ma mai e poi mai si sarebbe fatto visitare da un dottore, come molti compaesani gli avevano proposto:considerava i dottori il prologo della camera mortuaria.
La prima immagine, rientrando in paese era stata quella di un vecchio conoscente, seduto difronte al bar del paese, sempre sulla stessa sedia. Probabilmente, quell'uomo, non si era mosso più di cento metri nella sua vita. Per lui, nulla era cambiato, se non l'avanzare del tempo sul viso. Jan, sentì un moto d'orgoglio nell'esser stato così differente da quell'uomo, d'aver avuto un'anima viaggiante. Ora, però, doveva far conto con le cattive coincidenze che l'avevano portato a tornare senza un quattrino e fugare l'orgoglio.
Mentre continue coincidenze scrivevano i suoi giorni, come amava ripetere, l’umanità pulsante viveva i suoi attimi a lui sconosciuti, si arricchiva, rubava, lo calpestava e ai più era semplicemente invisibile.
Questa, era la vita di Jan. Come ogni mattino, nascose i cartoni dietro alla fontana e si incamminò verso la stazione a elemosinare qualcosa per il pranzo.
Arrivato in stazione entrò nel bar di Donna Oriunda, una signora enorme e gentile che appena lo vide gli preparò subito il caffe. Quando il marito non era presente,offriva sempre a Jean il caffè con un pezzo di torta. Così fece anche quel mattino. Jan sorseggio il prezioso corroborante, mangiò la fetta di torta, e dopo aver ringraziato educatamente la donna uscì nell'atrio della stazione. Un ferroviere, appena lo vide, gli fece cenno col capo. Jan lo seguì.
“Jan. Tra cinque minuti arriva il primo treno, tieniti pronto a trasportare i bagagli dei passeggeri che chiederanno il servizio. Sino alle dodici sarai impegnato:oggi viaggiano i magnati con i treni privati.”disse il ferroviere.
“Va bene. Speriamo siano lauti con le mance. Grazie di permettermi di lavorare”disse Jan.
La mattina scorse come al solito, e Jan mise insieme un gruzzolo di denaro sufficiente per mettere su un buon pasto per il pranzo e la cena. La sera non rimaneva mai in stazione, perché i treni erano pochi e i controlli molti. Così, dopo aver comprato in una bottega pane e formaggio, si incamminò verso la fontana per recuperare i cartoni che gli sarebbero serviti per la notte.
Dietro la fontana ebbe l'amara sorpresa. Le sue preziose lenzuola erano sparite. Lo spazzino, svolgendo regolarmente il suo servizio le aveva raccolte e portate al centro di smistamento. Tutto questo, per una persona normale e in un tempo normale non sarebbe stato un problema;ma in tal periodo c'era penuria di alberi, frutto di tagli scellerati delle foreste, e il riciclo bastava appena per le normali attività. Il freddo, ora, per Jan, sarebbe stato più pungente.
Marietta Argan, gli venne incontro per parlargli, con aria dispiaciuta.
“Jan, c'era un nuovo giovane in servizio oggi, il vecchio Tullian è andato in pensione. Il ragazzo ha buttato via i cartoni. Quando me ne sono accorta era già partito.”
“Non fa niente disse Jan. In qualche modo rimedierò”.
Così, se ne andò oltre la fontana,con un passo desolatamente triste e scomparve per sempre dal paese, in cerca di meno sfortuna, recitando queste incomprensibili parole: “Ho sentito note di vergogna nei flauti della gogna”.
Jan era ancora un uomo libero.Se per libertà s’intende non essere schiavi di meccanici lavori e indispensabili amori poteva ritenersi un uomo libero. Liberarsi. Liberarsi di questa sporca vita di sussistenza. Desiderava solo stordirsi con paesaggi che lo liberassero da pensieri e fantasmi.
La sua era un'andatura cupa tra le faglie della vita, eppure in quei passi scuri si poteva intuire una speranza. La speranza di una rinascita dentro una forte rassegnazione.
Le luci lo inondavano di un tenue chiarore.
Lo aspettava un lungo cammino.
Nessuno, seppe più niente di lui.


Gli opportunisti


II mattino era limpido e freddo, fasci terreni di sole riscaldavano assonnati viaggiatori e cullavano vecchi sdentati come bambini.
Casbon, era alla sua seconda giornata di lavoro come spazzino. Era un teologo. Nella sua profonda e sincera umiltà, gli sembrava che raccogliere la mondezza dell'umanità fosse la cosa che più lo potesse avvicinare a Dio.
Per questo, aveva deciso, nonostante il parere contrario della famiglia, pur di rimanere in paese, di accettare quel lavoro. Giovane brillante, dotato di grande inventiva e umiltà, aveva sconcertato con questa decisione la sua famiglia:una delle più importanti in paese. L'unico ad aver appoggiato la sua iniziativa ero lo zio prete, col quale si incontrava ogni sera per parlare di politica e poesia, eludendo scrupolosamente la religione, anche se non sempre gli riusciva.
La prima giornata di lavoro non era andata male, aveva svolto in maniera zelante il suo mestiere, recuperato molto cartone e conservato uno strano foglio ingiallito, con caratteri cinesi che avrebbe sicuramente portato allo zio per farselo tradurre.
Aveva radi rapporti con i suoi coetanei in paese perché li trovava sciocchi e insensibili e infettati da una sterile invidia e malattia di protagonismo. Più volte aveva iniziato a scrivere un romanzo ma non era riuscito a completarlo: sentiva che la sua coscienza, come la sua generazione, era troppo frammentata per una lunga narrazione avvincente, svilita dal calderone dove tutto appare e scompare in un istante. L'inizio del romanzo, che aveva intitolato “gli opportunisti”, iniziava in questo modo:

Scacciali….

Non li voglio vedere…..quei brutti visi……. luridi e fasulli

Come i loro corpi…..squallidi….si………hai sentito bene…….squallidi


Sputi ironici sul mio viso;
briciole avanzate di disgustose colazioni
spezzate da mattutini opportunismi.

Tossici rifiuti
per tossiche realtà.


Vago
brucio
calpesto

non mi insozzo di voi
dei vostri meschini giochi
da merde fumanti.


Peccato….
Non riuscirete….
Non riuscirete a coprire il vostro stesso tanfo,
quando annegherete nel vostro egoismo.

Allora,
allora si, che la sentirete strisciare!

Non riderò.
No! Non riderò….

Non vi stenderò neanche la mano
quando tutti…tutti….
Vi avranno abbandonato.

Non sarò accanto a voi, quando mi vorrete.

Quando il vostro stesso male vi giustizierà
mescolerò due lacrime a un mesto sorriso.


“Trovare un po' d'umanità nell'uomo moderno, è come scovare della polvere d'oro setacciandola nel bagno di un ospedale pubblico”ripeteva spesso Casbon. La sua fede non era ancora tanto forte da togliergli gli ultimi residui di rabbia e misantropia mistica.
Lo zio Yvan,era rientrato in giornata da una delle sue tante missioni all'estero. Casbon, decise di andarlo a trovare a casa, per una delle solite discussioni serali che avvenivano ai suoi rientri.
Lo zio Yvan, era un missionario che ogni tanto faceva ritorno in paese per un breve periodo e aveva un'avversione per la chiesa ufficiale. Conosceva una decina di idiomi e leggeva i testi sacri in aramaico. Aveva anche, un forte attaccamento alla sua terra che avrebbe voluta amministrata dagli “indigeni montani”, come definiva gli abitanti del suo paese, invece che dai cantoni stranieri ai confini.
Arrivò nella casa paterna, in cui lo zio, fratello del padre di Casbon, viveva dopo i lunghi soggiorni nelle varie parti del globo. La grande casa, in stile rustico, era stata riempita in ogni angolo di tomi e riviste e imperava un ordine sempre proteso al caos.
Casbon, prima di entrare,vide lo studio al piano superiore della casa illuminato. Così, dopo aver bussato inutilmente entrò comunque in casa, dato che la porta non era chiusa dall'interno. Lo zio, oltre a essere un po' sordo, si perdeva nei pensieri e nei libri.
Appena entrato in casa Casbon lo chiamò a gran voce:
“Zio Yvan..zio Yvan sono arrivato” disse.
Lo zio, tornato alla realtà dopo una lettura impegnativa sentì finalmente il ragazzo e rispose.
“Scendo subito, Cabon..versami un Rum per favore ma non berne”disse ridacchiando. Sbagliava sempre il suo nome apposta e lo pronunciava in indomontano antico, l'inguaribile purista, e Casbon si era stancato di dirglielo.
Il ragazzo gli versò il rum e aspettò ancora qualche minuto l'arrivo dello zio. Lo vide scendere dalla scala, gli sembrava ancora più magro e lungo delle scorse volte, scarno in viso e con l'immancabile pipa di radica in mano e degli insoliti basettoni incolti.
“Che strano prete, che strano zio”pensò il ragazzo, ridendo dentro sè compiaciuto.
“Com'è andata l'ultima missione?”chiese Casbon.
“Cabon, la terra del raggio verde è orgogliosa e indomita, come la sua gente. Ho passato più di tre mesi in un paesino vicino al castello Wacell ma inutilmente: ognuno prega il suo dio e le sue derivazioni umane, e così sia: amo la gente di carattere che non si fa piegare. Siamo della stessa tempra. Poi, detto tra noi, le istituzioni si sgretolano continuamente ma le radici del vangelo sono universali”disse Prete Yvan.
“Sì..Zio. Probabilmente, questo Dio si è divertito a comparire in varie epoche e cambiarsi il nome, giocare coi linguaggi, vivere per gli animisti in ogni angolo di natura remota, essere un dèmone passionale per eremiti,mistici e poeti contemplativi”affermò il ragazzo mentre gli occhi gli brillavano.
Lo zio Yvan sorrise a quel giovane così brillante e sensibile. Fu orgoglioso di quel nipote così lontano dallo stereotipo del giovane definito moderno.
“Come va il romanzo?” chiese lo zio.
“Non trovo il giusto ritmo, la giusta concentrazione per procedere,zio” disse Casbon.
“Forse, avresti bisogno di appartarti un po'.Di un periodo di isolamento creativo in mezzo alla natura rassicurante”disse prete Yvan.
“Vorrei farlo, ma ho incominciato da un paio di giorni a lavorare come netturbino e non posso già chiedere delle ferie”disse Casbon.
“Il lavoro,nemico di poeti e romanzieri,quasi li uccide”disse con fare ieratico lo zio.
“Come ha preso tuo padre questa scelta? Nella nostra famiglia sono tutti notabili a eccezione dello zio prete scapestrato giramondo” aggiunse ridendo.
“Non molto bene. Dice che dovrei avere più ambizione ma io non voglio andar via e in paese puoi fare il teologo ma senza guadagnarci nulla. Mica sono un prete”disse il ragazzo trattenendo una sonora risata.
“Bene..bene” disse Yvan incassando la battuta “questa volta non mi tratterrò molto in paese, ho chiesto di poter andare in un'isoletta del mar del sud, in cui imperversa un'epidemia, nei prossimi giorni farò i vaccini, il passaporto è pronto....”aggiunse.
“Vuoi partire con me ragazzo?..ah..dimenticavo..non puoi lasciare il tuo lavoro”
continuò prete Yvan in uno strano sussulto di tristezza.
“Vieni a cena da noi zio? Tuo fratello sarebbe felice di vederti. Lo sai, vero?”disse Casbon.
“Digli che lo ringrazio ma che non sto bene. Poi...tu sai come andrebbe a finire la nostra eterna lotta tra spiriti differenti.”disse prete Yvan.
“Piuttosto. Perché tu non rimani a cena. Rientrando sono passato in bottega a comprare l'occorrente per preparare la cena. Avverti per telefono tuo padre e trattieniti da me. Mi farebbe piacere”continuo Yvan.
“Va bene, zio. Salgo a telefonare al piano di sopra. Poi apparecchio e facciamo una bella cena”.
Così, lo zio mise sulla griglia del camino un paio di grosse bistecche e la cena scivolò tra carne, salumi e formaggi.
Dopo cena, mentre Casbon sorseggiava difronte al fuoco un digestivo, lo zio fumava la pipa e beveva un Aguaporojos .
Il silenzio imperava sereno.
Casbon ruppe l'atmosfera.
“Zio. Stamattina ho raccolto un foglio in uno strano idioma mentre lavoravo. Vorrei che tu lo tenessi. Non voglio sapere cosa c'è scritto. Potevo farlo tradurre nel negozio orientale ma non ho voluto. Sento che sono parole che non mi appartengono. Io ho una sola casa, una sola lingua. Tu hai radici forti, ma sei anche sempre pronto a volare per sete di conoscenza e amore degli altri”.
Detto questo, Casbon porse il foglio allo zio. Lo abbracciò forte, come mai aveva fatto, lo ringraziò per la cena e senza dire un'altra sola sillaba uscì nella notte.
Prete Yvan lo osservò dalla finestra andar via. Prese un trattatello di Schopenhauer che da tempo voleva finire di leggere e salì nello studio. La mente però volava altrove e non aveva neanche sonno. Mise in valigia il foglio ingiallito datogli dal ragazzo. Decise che l'avrebbe letto solo quando sarebbe arrivato sull'isoletta in cui si sarebbe svolta la sua missione. Solo a mattino inoltrato prese sonno, proprio mentre il nipote iniziava a lavorare.

Il piacere nell'assenza


L'anfratto del mondo è verità
la morte tenebrosa luce
la rassegnazione saggezza
il delirio febbrile peccato e tormento
la quiete estasi naturale,protezione della mente
la sopportazione coraggio
i versi un sudario di bellezza e conforto
alcuni eremitaggi,la sincerità ostinata e l'inesauribile ricerca dei grandi uomini.
Siamo esseri che si possono perdere…in mezzo allo spazio…in mezzo al tempo. Insane manie di apparenza, grandezza e perfezione, e assillanti ossessioni, possono distruggerci.
Eppure sono cosciente, spietato e lucido e non voglio varcare nessun confine. Voglio rimanere aggrappato alla terra. È necessario far scorrere il tutto con semplicità. Ho paura. Ho scavato per anni. Forse per troppo tempo. Il mio mondo interiore non deve vacillare. Non devo forzare la mia mente. Ma questo vagare del mio pensiero in zone proibite, mi vuol far impazzire.
Ora, ti prego, abbandonami. Demone infame, allontanati da me, non mi rapire. Lasciami costruire la mia vita, vivere spensierato la mia giovinezza senza tormentare i miei giorni, senza bruciare i miei anni. Non posso imprigionare di ossessioni una piccola mente affamata di tutto. Ma ogni attimo non può e non deve diventare un incubo….se solo la mia mente fosse più reattiva.. la mia volontà più forte. Non voglio più buttare il mio tempo. Non voglio più sprecare le mie carte, fin troppo in regola. Spazza lontano da me le inutili persecuzioni e fammi vivere.Mi sono estraniato fino a non sentire più una parola. Ho vagato in territori proibiti che turbano ancora i miei stati di veglia. Per te ero solo assonnato, malinconico, distratto. Ero appeso a un filo di ragione. Come uno stupido mi ero messo in testa di capire tutto e vivere ogni situazione che mi ero costruito nell’immaginazione. Stavo per uscire fuori da me stesso.Domani voglio rinascere, vivere in sintonia con il mondo che mi circonda senza farmi troppe domande. Ne uscirò un uomo più forte. Il vecchio uomo stava per essere ingoiato dai fantasmi, ha assaporato e visto l’assurdità che realmente esiste. Ma per vivere bisogna guardare senza vedere, sentire senza ascoltare, far finta di capire tutto, non scavare oltre i limiti per non perdersi. L'unica strada rumorosa appartiene alla dignitosa assenza, allo spigoloso e fragoroso silenzio.

Questo, era il monologo che recitava un lungo ed esile prete fuggito sull'isola col paravento di fare il missionario. A causa di un'epidemia che aveva decimato la già esigua popolazione, ora viveva solo in una terra solare e vergine preda di un grande sconforto per la morte dei locali. Lui, un prete a metà strada tra un esploratore e un ideologo, un filoso e un teologo, che non aveva mai avuto il coraggio di fare una scelta di solitudine totale, ora era lì, appartato con sè stesso.
Scese la scalinata, costruita assieme agli indigeni, e si sedette nell'ultimo gradino appena affiorante sul mare, quel giorno grigio come la burrasca che stava per arrivare.
Si sentiva come un cristo crocifisso in acqua che riemerge tra spuntoni di solitudine.Ringraziò Dio di non averlo reso succube della chiesa ufficiale. Poi, si guardo le nocche delle mani, erano sempre più evidenti: secondo alcuni sciamani delle Ardegnas rivelano la morte in un'arcaica premonizione.
Il prete estrasse il foglio ingiallito, scritto a caratteri orientali. Contemplò ancora per qualche istante lo specchio inquieto e terribilmente rasserenante del mare.Tradusse le frasi del foglio.Erano dei versi. Semplicemente dei versi. Unici e irripetibili nella loro forma.
Le prime gocce gli bagnarono dolcemente il viso. Si alzo in piedi, nella sua figura lunga e scarna.
“Anche Dio..anche Dio mi benedice” disse ad alta voce”benedice me e queste parole”.
Detto questo, un vento sottile si insidiò tra le sue parole, i tuoni suonaro gravi e insolenti, i lampi venarono l'acqua e una salmastra eternità pervase l'isola.
Il lungo prete, come di fronte a una platea invisibile eppur presente stagliò la mano in aria e recitò le parole scritte sul foglio:


Io non so più mio Dio

Io non so più
mio Dio,
come resistere
all'uomo
che incensa sé stesso,
illudendosi con finti miraggi
di essere un piccolo Dio.

Io non so più
mio Dio,
dove scovare
gente che sa ascoltare.

Io non so più,mio Dio.

COSTANTINO LONGU FRANCESCHINO SATTA POESIAS SARDAS CONTOS POESIE IN LINGUA ITALIANA